29 ottobre 2009

This is it. Commemorazione, guadagni e critiche

Operazione-Nostalgia già iniziata. La volontà di lucrare ancora una volta sulla popolarità della popstar scomparsa non conosce limite. This is it celebra comunque il talento di un uomo che, nelle sue ultime settimane di vita, appare ancora capace di cantare, di danzare, di stupire con le strabilianti coreografie del suo spettacolo.

Il film infatti, ritrae la preparazione - dall'aprile al giugno 2009 - di quello che avrebbe dovuto essere l'ultima mega-esibizione di Michael Jackson, all'Arena 02 di Londra. E a cui lui non è mai arrivato, visto che la morte lo ha stroncato poco prima. Quelle prove, però, erano state filmate: un totale di 100 ore di materiale, da cui sono stati tratti i 112 minuti del film. Un palco faraonico, per un concerto-musical (regia di Kenny Ortega, lo stesso che firma il film) costosissimo e ambizioso. Con effetti speciali in 3D (per la performance in stile ovviamente horror di Thriller), giochi di interazione con le antiche star hollywoodiane (da Rita Hayworth a Humphrey Bogart, per il brano Smooth Criminal), effetti visivi e sonori di ogni genere. Ma anche un team di persone in carne e ossa, selezionate da lui: musicisti, coristi, ballerini, tecnici delle luci.

Diverse centinaia di fan, con indosso un solo guanto come era usanza di Jackson negli anni 80, si sono riuniti ieri per le anteprime di Los Angeles e Londra, mentre 150.000 fan, anche dal Brasile e dall'Australia, hanno visto l'anteprima di Los Angeles via internet. Ieri è stato giorno di anteprima per il film anche in altre 15 città, tra cui Seul, Johannesburg, Rio de Janeiro e Berlino.

Il fondatore di Motown Records, Berry Gordy, e i fratelli di Jackson, Jermaine, Tito, Jackie e Marlon sono tra i vip che hanno reso omaggio al re del pop, morto improvvisamente lo scorso 25 giugno. Ortega ha dato il via all'anteprima di Los Angeles descrivendo Michael Jackson come "un uomo che ha cercato di rendere il mondo un posto migliore. 'This Is It' è e rimarrà sempre un film per i fan".

Il documentario si apre con i cantanti e i ballerini che hanno collaborato con la star che raccontano le sensazioni provate nel lavorare con un divo come Jackson, per poi passare direttamente alle immagini del suo grande successo "Wanna Be Startin' Somethin'".

Il resto della pellicola mostra le prove di Michael Jackson in vista del suo show "This Is It". Tra le coreografie preparate per i concerti c'erano quelle di cult come "Beat It", "Thriller", "Black or White" e "Man In The Mirror". Per tutto il film si vede Jackson lavorare con cantanti e ballerini per creare uno show che soddisfi il suo pubblico.

Claudia Puig, critica cinematografica per Usa Today, ha commentato per Reuters il film: "Ti dà un senso dello show e un'idea della sua straordinaria capacità di intrattenere", ha detto la giornalista. Il critico dell'Hollywood Reporter Kirk Honeycutt ha scritto che Michael Jackson "stava chiaramente preparando una serie di concerti spettacolari". Beau Franklin, una delle fortunate che hanno assistito all'anteprima, ha definito "This Is It" un film "molto commovente".


di Francesco Giacalone

U2, concerto gratuito a Berlino

Gli U2 terranno il 5 novembre un concerto gratuito davanti alla Porta di Brandeburgo, a Berlino, in contemporanea con gli Mtv Music Awards. L'evento del 5 novembre giunge quattro giorni prima del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, simbolo della Guerra fredda che divideva in due la citta'. I biglietti per il concerto (gratuiti) sono già esauriti poichè molti fan si sono immediatamente collegati sui siti www.u2.com e www.mtvema.com per accaparrarsi i ticket . Durante lo show si esibiranno anche Jay-Z e Robbie Williams.

di Francesco Giacalone

28 ottobre 2009

Spandau Ballet - Back for One More Dance

A vent’anni di distanza dal loro ultimo album, e dopo le controversie legali che ne hanno sancito lo scioglimento, il gruppo britannico Spandau Ballet torna sotto i riflettori con un nuovo album, Once More, e un nuovo tour mondiale per promuovere la loro storica Reunion. Già nel 2007 si erano avvertiti i sentori di un possibile ritorno per celebrare il 30° anniversario della band, ma bisognerà aspettare il 23 marzo di quest’anno per vedere pubblicato sul sito ufficiale del gruppo, www.spandauballet.com, un messaggio da parte del batterista John Keeble.

La strada per la reunion è stata lunga ed impegnativa. Ma quello che conta adesso è che siamo davvero eccitati anche solo davanti alla prospettiva di intraprendere un tour mondiale. Poche settimane fa ci siamo ritrovati insieme in uno studio di registrazione per la prima volta dopo quasi vent’anni, e tutto è tornato come prima. Ciò che immediatamente venne fuori assomigliava proprio al sound di una band, ma non una qualsiasi, bensì questa band, gli Spandau Ballet. Adesso, tutto quello che ci serve è il pubblico. Il gioco ha inizio…” [John Keeble, 23 marzo 2009]

La storia del gruppo inizia verso la fine degli anni ’70, quando il cantante Tony Hadley si aggrega al trio composto da Gary Kemp (chitarra), Steve Norman (sassofono e percussioni) e John Keeble (batteria), conosciutisi nella Dame Alice Owen's School di Islington. Entra a far parte del gruppo anche il bassista Michael Ellison, che venne quasi subito sostituito da Richard Miller. Un paio di anni più tardi, subentrerà al basso il fratello di Gary, Martin Kemp, che sancirà la formazione definitiva della band, che da allora non ha subito variazioni.

Dopo aver cambiato più volte il proprio nome, la band adotterà definitivamente il nome Spandau Ballet in seguito ad un incontro con l’amico Robert Elms, dj per l’emittente radiofonica BBC London a Spandau, un quartiere di Berlino, dove venne ispirato da alcuni graffiti. Il termine «spandau ballet» si riferiva agli spasmi dei criminali di guerra nazisti mentre "danzavano al capo della corda", quando venivano impiccati nella prigione di Spandau.

Gli “Spands” ottennero un buon successo di pubblico soprattutto nei locali londinesi, e il loro primo singolo, "To Cut a Long Story Short", fu un successo immediato in quasi tutto il Regno Unito. Il primo album della band, Journeys to Glory (pubblicato nel 1981), divenne disco d’oro e rivestì un ruolo rilevante soprattutto nella scena musicale inglese, dove i cambiamenti messi in atto all’inizio degli anni ’80 stavano già producendo nuove sonorità e nuovi costumi. L’album infatti servì a definire le sonorità del nascente movimento New Romantic, caratterizzato da testi cantilenati, ritmi ballabili, il tipico suono della snare drum (la batteria elettronica che marcherà pesantemente quasi tutte le produzioni musicali degli anni ’80), la mancanza di assoli di chitarra e partiture ritmiche molto elaborate.

Il movimento New Romantic, definito anche come una sottocategoria della musica New Wave e Synthpop, si ispirò nettamente alla musica e ai costumi di artisti quali David Bowie, Roxy Music, introducendo delle novità attraverso sonorità indirizzate più verso il Pop, che di li a poco avrebbe invaso la nuova decade musicale.

Fra gli altri gruppi importanti che ne hanno delineato le forme, ricordiamo anche i Culture Club, i Talk Talk, i Tears for Fears, gli A-Ha, gli Ultravox, gli Eurythmics e i Duran Duran (acerrimi avversari degli Spandau durante i giorni di gloria), considerati l’ultimo gruppo ad aver abbracciato questa corrente musicale che cominciò a dissolversi verso la metà degli anni ’80.

Il successo internazionale degli Spandau Ballet arrivò nel 1983, grazie all’album True, caratterizzato da un sound più contemporaneo e maturo. La title-track dell’album è senza alcun dubbio ancora oggi il brano più famoso del gruppo, trasformandosi in un classico della musica pop degli anni ’80. Elemento fondamentale per il successo mondiale del singolo sarà il celebre assolo del sax di Steve Norman.

Oltre al sound, cambiò anche il look della band: abbandonati gli sgargianti abiti multi-strato, le capigliature e il trucco che caratterizzarono il movimento New Romantic, il quintetto adotterà un look più elegante e aristocratico, ispirandosi agli anni ’40.

Durante gli ultimi gli anni del gruppo, la loro musica comincia a peccare sia qualitativamente, sia come successo di pubblico, tanto che l’ultimo album, Heart Like a Sky (pubblicato nel settembre 1989), non venne distribuito in vari paesi (come ad esempio negli Stati Uniti), e passò per lo più inosservato alla critica musicale. Lo stesso Gary Kemp, chitarrista e autore di quasi tutti i brani del gruppo, confessò la mancanza di entusiasmo e comunicazione all’interno del quintetto negli ultimi anni, raggiungendo il punto di non ritorno proprio con l’uscita dell’album.

Eravamo giovani, avevamo un successo enorme, si stava insieme giorno e notte; succede come alle coppie, alla fine non ci si sopporta più tanto.” [Tony Hadley]

Dopo lo scioglimento, ognuno ha preso la propria strada: Gary Kemp si improvvisa attore nel grande successo cinematografico “The Bodyguard - Guardia del Corpo” di Mick Jackson (interpretato da Kevin Costner e Whitney Houston), prima di ottenere un nuovo insuccesso commerciale con la sua carriera solista. Tony Hadley si dedica al jazz e allo swing, pubblicando recentemente alcuni lavori. Inoltre, insieme a Steve Norman e John Keeble, intraprende una battaglia legale per condividere con Gary Kemp le royalties dei brani scritti dal chitarrista e portati al successo dagli Spandau Ballet, oltre che per poter usufruire del nome stesso del gruppo.

Dunque, sembrava davvero che fosse finita per sempre la storia degli “Spands”.
Ma gli ultimi anni sono stati davvero prolifici di revival gloriosi da parte di quelle storiche band che, per motivi economici o per semplice “nostalgia” da palcoscenico, sono tornate alla carica con reunion colossali o più o meno deludenti, chi con singoli, straordinari e “genuini” eventi come i Cream, chi con colossali tour americani ed europei (ma ancora in grado di trasmettere incredibili emozioni e ottima musica) come i Genesis, o ancora chi con tour mondiali poco credibili sia musicalmente che idealmente, come (purtroppo) i Police.

Ma gli Spandau Ballet sono stati del tutto “chiari” nella conferenza stampa del 25 marzo 2009, durante la quale hanno annunciato l’uscita di un nuovo album che ripropone tutti i più grandi successi del gruppo attraverso nuovi arrangiamenti, più due brani inediti ("Love is all" e la title-track, “Once More”).

Questa riunione è genuina. E il motivo è semplice, ci siamo accorti che l'esperienza degli Spandau Ballet era la cosa migliore che avessimo fatto e col passare degli anni ci mancava. Per noi è una vera ripartenza, siamo qui per restare e non per sparire non appena finito il tour.” [Gary Kemp]

La tournée ha inizio il 13 ottobre 2009 all’arena O2 di Dublino. “10.000 fan degli Spandau hanno assistito ad una straordinaria performance del tutto inaspettata. Tornati sul palco dopo quasi 20 anni di assenza, i cinque “ragazzi” londinesi hanno dimostrato che il tempo non ha per nulla oscurato il loro entusiasmo e la loro abilità. La reazione della folla ha superato di gran lunga le aspettative della band”, così recita un articolo sul sito ufficiale del gruppo.

Gli “Spands” rimarranno in tour nel Regno Unito fino al 29 ottobre. Dopo la tappa olandese ad Amsterdam, prevista per il primo novembre, il tour riprenderà a marzo dell’anno prossimo con le tappe italiane di Milano (Arena Mediolanum, 1 marzo), Roma (Palalottomatica, 2 marzo) e Firenze (Mandela Forum, 3 marzo), per poi proseguire per l’Europa in attesa dell’annuncio delle prossime date.


di ANTONINO BONOMO
Tracklist

Spandau Ballet
ONCE MORE
(Mercury Records, 19 ottobre 2009)
  1. Once More
  2. To Cut A Long Story Short
  3. Gold
  4. True
  5. Chant No.1
  6. I'll Fly For You
  7. Only When You Leave
  8. Through the Barricades
  9. She Loved Like Diamond
  10. Communication
  11. Lifeline
  12. With the Pride
  13. Love is All

27 ottobre 2009

Ringo intervistato da Affaritaliani.it

Riportiamo con piacere l'intervista a Dj Ringo tratta da Affaritaliani.it, in cui il DJrock più famoso d'Italia fa un primo bilancio su Virgin, la radio specializzata nella 'musica del diavolo' della quale è il volto principale, ma non solo.

Ringo, come se la passa il rock nell'etere?
"Non ha mai avuto tanta visibilità, e credo che il successo di Virgin Radio abbia influito. Le altre emittenti, vedendo i nostri ascolti altissimi, hanno finalmente capito che il rock alla radio piace al pubblico..."

A parte Virgin, quali altre radio ascolta?
"Se si parla di programmazione musicale, sicuramente LifeGate. Se invece cerco un programma di informazione, mi sintonizzo su Radio 24 per 'La zanzara'".

Novità in vista a Virgin?
"Sì, un nuovo programma pomeridiano, pensato per i più giovani e dove infatti si parlerà di 'nuovo' rock. Il nome ancora non c'è, ma lo condurranno due emergenti, Andrea Rock e Giulia Salvi".

Ma chi è il 'nuovo' Dj Ringo?
"Non credo ci sia. Come in altri ambiti artistici, e mi riferisco ad esempio al cinema, purtroppo manca il ricambio. La verità è che siamo sempre gli stessi!".

Qualche domanda 'extra' radio. E' un grande tifoso del Milan, a quale calciatore rossonero si paragona?
"Premesso che sono scarso col pallone, a livello di stile dico sicuramente Paolo Maldini. Un altro che mi piace tanto, e non solo per il soprannome simile al mio (Ringhio, ndr), è Gattuso. Grande grinta. Se invece si parla di attaccanti, il più grande di tutti è senz'altro Van Basten".

A proposito di Maldini, lei è un suo grande amico. Ma almeno a lei ha detto cosa farà da grande?
"Per ora so che si vuole riposare un po'. Ma in futuro...".

In futuro cosa?
"Io non ti ho detto nulla... ma potrebbe arrivare ai livelli di Platini (attuale Presidente dell'Uefa, ndr)...".

Ha partecipato all'Isola dei Famosi. Tornerebbe ospite in un reality?
"Perché no?! Quell'esperienza durò pochissimo, ma in futuro non mi precludo nulla...".

X Factor sarebbe perfetto per lei...
"No, X Factor no. Non mi piace, sembra il karaoke. E non basta Morgan, che è il solo a dare qualità, a farmelo piacere

di Giordano Brega e Antonio Prudenzano

26 ottobre 2009

Yes in concerto a Vicenza, Roma e Milano

Gli Yes, uno dei più importanti gruppi del progressive rock, saranno in Italia il 2, il 4 e il 6 novembre. Tre date per far rivivere quelle atmosfere oniriche che soltanto la loro musica può produrre. La band formata nel 1968 ha conosciuto il suo periodo di maggior successo fra gli anni settanta e i primissimi anni ottanta, l'epoca d'oro del progressive e del rock psichedelico. Insieme a Genesis, Pink Floyd, King Krimson e Soft Machine, gli Yes portarono alla ribalta un tipo di sonorità molto vicina alla musica classica ma rivisitata in chiave moderna. All'inizio del 2008 è stato annunciato il grande tour mondiale celebrativo dei quarant'anni della band, dal titolo Close to the Edge and Back Tour. Con Jon Anderson, Steve Howe,Chris Squire a Alan White, era prevista la partecipazione di Oliver Wakeman, figlio di Rick Wakeman alle tastiere. Il tour è stato invece, in un primo tempo, annullato a causa di problemi di salute del frontman Anderson ed in seguito riconfermato col titolo di In the Present Tour, annunciando la sostituzione (per i live) di Anderson con David Benoit cantante canadese di una delle più note tribute band degli Yes. I concerti si terrano a Vicenza (Tatro Comunale, 2 novembre), a Roma (Teatro Tendastrisce, il 4 novembre) e a Milano (Teatro degli Arcimboldi, il 6 novembre).


di Francesco Giacalone



25 ottobre 2009

Franco Battiato, il nuovo singolo: Inneres Auge

I potenti, un branco di lupi. Con queste parole Franco Battiato "marchia" i personaggi che hanno animato le cronache degli ultimi mesi. I festini del presidente del consiglio, il potere dei soldi e l'assenza di giustizia sono al centro di questo brano dalle sonorità elettro-classiche. Una canzone che divide. Netta, implacabile. Inneres Auge, (in tedesco Sguardo interiore) è stata presentata in anteprima sul sito repubblica.it e ha già suscitato numerose polemiche. Il brano sul degrado etico, politico e culturale al centro dei pensieri e della musica del grande autore siciliano, siamo certi, avrà un enorme successo.

di Francesco Giacalone

ascolta il brano:

Recensione: Pat Metheny Trio - Rejoicing

Sono molte le formazioni jazzistiche che hanno lasciato il segno, e che ancora oggi vengono apprezzate e idolatrate sia dai “veterani” appassionati di jazz, sia dai giovani che riscoprono il fascino di un linguaggio musicale intramontabile che porta gli strumenti e le melodie al di là di ogni singola nota, raggiungendo quella sorta di “ignoto” che colpisce e incanta.

A conti fatti, la musica è tutt’una, indistinguibile. Ogni genere e ogni artista trasmette delle emozioni totalmente individuali, con i rispettivi “effetti collaterali” che non possono essere “spiegati” o “tradotti” se non da colui che li percepisce. Si può etichettare la musica, distinguendola per generi; ma quando, come nel caso del jazz, ci ritroviamo davanti a centinaia e centinaia di eccellenti artisti con altrettante splendide “opere d’arte”, non esistono termini di paragone, non esistono confronti, non esistono “duelli”. Rimane solo una cosa da fare: ascoltare e godersi uno dei tanti viaggi che abbiamo scelto di intraprendere.

Quello in questione, è un viaggio attraverso la più semplice ed essenziale formazione jazz: il Trio. Anche in questo caso, le possibili combinazioni dei vari strumenti sono molte; ma possiamo provare a restringere il campo considerando il trio composto da chitarra, basso e batteria. Se poi nella nostra ricerca inseriamo alcuni tag con i nomi di Pat Metheny, Charlie Haden e Billy Higgins, allora ecco che abbiamo raggiunto la nostra meta: Rejoicing.

È tutto nato da un concerto che feci in California con Charlie e Billy; venne fuori così l’idea di continuare a suonare insieme. Mi bastarono quattro battute per capire che avrei dovuto registrare con loro. Suonare standard è la cosa che faccio meglio, era quindi logico fare qualcosa anche su disco. [Pat Metheny]

Oltre a questi tre pionieri del jazz, un altro nome va menzionato nel ripercorrere la storia di quest’album, quello di Ornette Coleman. Compositore e sassofonista, inventore dell’armolodia, Coleman è considerato uno dei maggiori innovatori del movimento free jazz degli anni ’60, nonché modello e fonte di ispirazione per tutta una generazione di musicisti jazz dagli anni ’70 in poi. I tre musicisti dell’album, Metheny in particolare, compaiono fra coloro che più di tutti hanno assorbito le influenze della musica di Coleman, dimostrandolo proprio con Rejoicing.

Con queste registrazioni e con i concerti che ne derivano, nasce il primo Pat Metheny Trio, che nel corso degli anni, fino ad oggi, vedrà alternarsi al fianco di Metheny diversi musicisti (Dave Holland, Roy Haynes, Larry Grenadier, Bill Stewart, Christian McBride e Antonio Sanchez). In realtà, il primo vero Trio con il quale Pat collaborò fu quello con il quale registrò il suo straordinario album di debutto, Bright Size Life, nel 1975, affiancato dal suo grande amico Jaco Pastorius al basso e Bob Moses alla batteria. Ma l’album venne pubblicato a nome del solo Metheny, per cui Rejoicing è la prima vera produzione del Pat Metheny Trio.

Billy Higgins, soprannominato “Smilin’ Billy”, è considerato fra i grandi della batteria jazz. Il suo personalissimo stile si basa su un raffinatissimo lavoro ai piatti e un’insuperabile abilità con le spazzole, caratteristiche che ha saputo egregiamente trasferire nel free jazz e nell’hard bop; si è inoltre cimentato in alcune registrazioni in stile funk e rock durante gli anni ‘80.

Billy è uno dei più grandi esecutori con i quali io abbia mai suonato; è una persona molto aperta e puoi sentire quanto ami suonare. Sa creare un continuo happening con il pubblico. [Pat Metheny]

Scomparso nel 2001, oltre ad una decina di lavori discografici da solista, Higgins ha collaborato con tutti i grandi jazzisti della sua generazione: Thelonius Monk, John Coltrane, Sonny Rollins, Dexter Gordon, Art Pepper, Jackie McLean, Joe Henderson, senza dimenticare la sua presenza (appena ventiduenne) nel leggendario quartetto di Ornette Coleman nel 1958, quartetto nel quale troviamo al contrabbasso proprio Charlie Haden.

Haden rappresenta una vera e propria colonna portante del jazz moderno; contrabbassista dotato di straordinaria preparazione musicale, cresciuto in una famiglia di musicisti, cominciò a suonare a livello professionale verso la fine degli anni ’50, quando entra a far parte del quartetto di Ornette Coleman. Successivamente formerà la celebre Liberation Music Orchestra, e collaborerà con il pianista Keith Jarrett, il batterista Paul Motian, il sassofonista Michael Brecker, fino al sodalizio con Pat Metheny iniziato proprio con Rejoicing, e che condurrà alla realizzazione di un altro splendido album nel 1996, Beyond The Missouri Sky, registrato in duo con il chitarrista.

Ho sempre ammirato la visione musicale di Pat. È un innovatore del suono, nella composizione e nell’improvvisazione. Ha il raro dono che gli consente di comunicare le armonie e le melodie a tutti i tipi d’ascoltatori, mantenendo inalterato quel tipo di profondità e bellezza, tipico della migliore musica improvvisata. [Charlie Haden]

Troppo vasta e affascinante appare la biografia di Patrick Bruce Metheny per poter essere anche soltanto accennata. Dopo l’esperienza dell’insegnamento al Berklee College of Music di Boston (a soli 19 anni, Pat insegnerà improvvisazione in un corso dal quale usciranno alcuni chitarristi del calibro di Al Di Meola, Chuck Loeb e Mike Stern), ruolo ottenuto grazie al celebre vibrafonista Gary Burton che per primo ne scopre le straordinarie e precoci qualità, Pat passerà attraverso esperienze professionali che lo porteranno al fianco di Paul Bley, di Jaco Pastorius e dello stesso Burton.

Dopo i primi due album da solista, nel 1978 fonderà l’ormai leggendario Pat Metheny Group, uno dei rari esempi di formazione jazz capace di raggiungere il grande pubblico, senza tuttavia cedere a tentazioni squisitamente commerciali. Il gruppo ha sviluppato negli anni uno stile decisamente riconoscibile, fatto di dense orchestrazioni spesso unite allo stile classico e molto ibridato dalla world music, traendo soprattutto spunto dalla musica sudamericana.

Il primo vero Pat Metheny Trio, composto da Metheny, Haden e Higgins, esordisce nel corso di un piccolo tour allestito per preparare il repertorio da inserire successivamente nel disco. Le registrazioni dell’album vennero effettuate in due giorni in sole due session di sei ore, il 29 e 30 novembre 1983, agli studi Power Station di New York. Vengono scelti alcuni standard come “Lonely woman” del compositore Horace Silver e “Rejoicing” di Coleman, che darà il titolo al disco.
Fra gli inediti compaiono “Blues for Pat” composta da Charlie Haden e dedicata al suo grande amico chitarrista, assieme al quale compone anche “Waiting for an answer”. Metheny comporrà per l’album “Story from a stranger” e “The Calling”.

La cosa che rispetto in particolare in Pat è il suo intuito, inoltre non guarda al successo come a una cosa che le persone devono a lui. Penso sia veramente sorprendente scoprire una persona così, che non si preoccupa di avere successo, bensì di riuscire in ciò che lui crede. Egli ha il mio più alto rispetto sia come artista sia come essere umano. [Ornette Coleman]

Oltre a “Rejoicing”, caratterizzata dall’entusiasmante solo pirotecnico di Pat, il trio si trova perfettamente a proprio agio con altre due composizioni di Coleman: “Tears inside”, dove il bravissimo Higgins conduce un lavoro egregio ai piatti (che fa da sfondo alla fantastica apertura da brividi del riff “felpato” della Gibson ES 175 di Pat), e la cavalcante “Humpty dumpty”, dove Metheny mostra il suo inimitabile tocco e la sua completa padronanza nell’improvvisazione.
Da incorniciare anche il trascinante clima “rilassato” di “Blues for Pat”, dove Haden scandisce magistralmente il ritmo mentre Metheny alterna il solo jazz con le note fuori tonalità.
“The Calling” e “Story from a stranger” rientrano in un capitolo a parte nella carriera di Pat Metheny che ha inizio proprio durante questo periodo: la chitarra synth.

Poco prima di intraprendere il tour con Haden e Higgins, Pat porterà a termine la collaborazione con l’ingegnere Cal Gold nella creazione della chitarra-sintetizzatore Roland 303 con interfaccia Synclavier. Oltre ad essere stato uno dei pionieri della synth, Metheny ne ha anche intuito le potenzialità prima di qualunque altro chitarrista e con la sua sperimentazione ha permesso a tanti altri colleghi di utilizzare la Synclavier guitar nella sua forma più evoluta.
Pat utilizzerà per la prima volta con risultati soddisfacenti la Synclavier proprio in quest’album, e da quel momento, la sua inimitabile padronanza della synth produrrà un sound onnipresente in quasi tutte le sue produzioni, soprattutto in quelle intraprese con il Pat Metheny Group.

In questo disco debutta anche un altro importante strumento: in “Lonely woman”, Pat suona una chitarra acustica 6 corde costruita per lui dalla canadese Linda Manzer, una vera artista della liuteria, che da quel momento rivestirà un ruolo fondamentale nella carriera di Metheny. Costruirà, infatti, altri modelli di chitarre acustiche, classiche ed elettriche, progettate in stretta collaborazione con lo stesso Metheny. Sarà proprio Linda Manzer che materializzerà gli strumenti grazie ai quali Pat potrà continuare a sperimentare con le sue strane accordature e con la ricerca di suoni sempre innovativi e mai sentiti.

Quello che più mi stupisce di Pat è la sua dedizione, ha sempre la chitarra in mano, in qualsiasi posto si trovi. È una delle poche persone che sappia suonare i pezzi di Ornette; suonare armolodicamente comporta, infatti, un differente approccio, e Pat questo lo sta facendo da diverso tempo. Suonare con lui è stato per me sempre divertente, anche perché è sempre molto umano, veramente una bella persona. [Billy Higgins]

Nonostante la splendida collaborazione con due colossi del jazz, Metheny non sarà del tutto soddisfatto della qualità del disco, a causa di alcuni missaggi non riusciti. Lo stesso Pat vorrebbe aver avuto il tempo di correggere alcune imperfezioni, ma l’etichetta ECM non concesse alcun “ritocco”, imponendo al chitarrista e ai suoi colleghi i soliti tempi ristretti per terminare la produzione dell’album.
Sarà anche questa una delle cause che porteranno l’esigentissimo Pat ad abbandonare la celebre etichetta che, soprattutto negli anni ’70, ha svolto un ruolo di tutto rispetto nei confronti del jazz moderno.

Considerazioni tecniche a parte, il primo lavoro discografico del Pat Metenhy Trio, oltre che dal punto di vista musicale, ricopre un ruolo storico fondamentale: molti fan del Pat Metheny Group, così come gli appassionati del jazz più tradizionale, impararono a conoscere i grandi maestri del jazz e a riscoprire tutta una tradizione jazzistica interpretata magistralmente da Metheny, Haden e Higgins.

Terminato l’album, dopo soli pochi giorni di riposo, Metheny tornerà negli studi Power Station di New York per dar vita a quello che viene considerato uno dei migliori album del Pat Metheny Group, nonché un capitolo importantissimo e decisivo nella storia del jazz contemporaneo: First Circle.

Il 19 aprile 1984 ha inizio il tour nord-americano di 22 date del Pat Metheny Trio che farà tappa a Buffalo, Toronto, Boston, Washington, Chicago, per terminare al Village Vanguard di New York con sei entusiasmanti show. È proprio durante uno di questi ultimi concerti che il trio riceve la visita del loro mentore, Ornette Coleman, con il quale Metheny e Haden collaboreranno un anno più tardi per la realizzazione dell’album Song X.

Pat possiede la qualità di mettere insieme ottime band; la sua musica raggiunge molte persone e ciò è molto importante. Lo rispetto molto come musicista ed è anche un buon amico. [Dave Holland]


di ANTONINO BONOMO


Tracklist

Pat Metheny w/Charlie Haden & Billy Higgins
REJOICING
(ECM 1271, marzo 1984)
  1. Lonely Woman (Horace Silver)
  2. Tears Inside (Ornette Coleman)
  3. Humpty Dumpty (Ornette Coleman)
  4. Blues for Pat (Charlie Haden)
  5. Rejoicing (Ornette Coleman)
  6. Story from a Stranger (Pat Metheny)
  7. The Calling (Pat Metheny)
  8. Waiting for an Answer (Metheny-Haden)




19 ottobre 2009

Fratelli O'Keeffe Vs Fratelli Young: 2-0

Non si tratta di semplice ispirazione. Non possiamo neanche parlare di plagio; quello degli Airbourne nei confronti degli Ac/Dc è qualcosa di diverso. Potremmo definirla come "acquisizione di stile".

La band australiana (primo punto in comune) nata da un'idea di due fratelli, (seconda somiglianza) gli scatenati Joel e Ryan O'Keeffe, sin dal primo album autoprodotto e pubblicato nel 2005 appare come un fenomeno davvero singolare. Gli Airbourne non sono una copia in chiave moderna degli Ac/Dc ma possiamo considerarli come la reincarnazione della band dei fratelli Young. Ascoltando il loro primo album Runnin Wild, pubblicato nel 2007 dalla EMI il confronto appare molto evidente. Canzone dopo canzone, riff dopo riff, sembra d'ascoltare i primi album del periodo con Bon Scott: High Voltage (1974), TNT (1975) o Let There be Rock (1977).

Nel 2005 gli Airbourne hanno pubblicato anche un Ep dal titoloReady to Rock in cui si nota chiaramente sia la genuinità delle canzoni che la "violenza" dell'esecuzione. I due album pubblicati dalla band dei fratelli O' Keffe superano per spontaneità e "freschezza" gli ultimi lavori degli Ac/Dc, Stiff Upper Lip e Black Ice spingendo sia i critici che i fan a considerare gli Airbourne, e altre band interessanti della terra dei canguri, fra i migliori gruppi rock del nuovo millennio. Non a caso la band negli ultimi mega tour dei Rolling Stones, dei Motley Crue e dei Motorhead si è esibita in apertura dei concerti per accendere, o per meglio dire "dar fuoco" agli animi degli spettatori.


di Francesco Giacalone






Alla realizzazione di questo video, girato per l'uscita nel 2007 del singolo Running Wild, ha partecipato il leader dei Motorhead, Lemmy Kilmister

15 ottobre 2009

Kiss, Modern Day Delilah

I Kiss presentano il primo singolo estratto dal nuovo album intitolato Sonic Boom nel "late show" di David Letterman. L'attuale formazione dei Kiss è formata da i due vecchi leoni Paul Stanley (chitarra e voce) e Gene Simmons (basso) e dai nuovi arrivati Tommy Thayer (chitarra solista) ed Eric Singer (batteria).


14 ottobre 2009

Recensione: Hendrix - Band of Gypsys

La Band of Gypsys era un forte sodalizio creatosi fra tre fratelli.” [Buddy Miles]

È difficile trovare un’affermazione migliore di quella del leggendario batterista Buddy Miles per riassumere in una sola frase ciò che è stata la Band of Gypsys, ovvero l’ultimo capitolo, al di fuori dell’Experience, della breve ma straordinaria carriera di Jimi Hendrix.

Oltre alla componente musicale in se, caratterizzata sia dalle ormai ben note sovrannaturali capacità di composizione e di esecuzione di Hendrix, sia dal possente supporto della sezione ritmica composta da Billy Cox al basso e Buddy Miles alla batteria, la formazione, nata subito dopo il successo planetario di Jimi ottenuto a Woodstock nell’estate del 1969, contiene tutti gli elementi necessari per creare quell’alone mitico, e al tempo stesso mistico, che permette a eventi del genere, protagonisti inclusi, di trasformarsi in leggenda.

Il 1969 rappresentò una vera svolta nella carriera di Hendrix. All’epoca, il successo della Jimi Hendrix Experience era ormai all’apice: dopo lo shock e gli stravolgimenti musicali e culturali provocati dai primi due LP del trio Hendrix-Mitchell-Redding (Are you experienced? e Axis: Bold as Love), il 1968 vede la comparsa di Electric Ladyland, che sarà anche l’ultimo LP di Hendrix registrato in studio. L’album dimostra un netto cambio di rotta sia musicalmente sia dal punto di vista della gestazione delle sedute di registrazione.

Il nuovo album presenta delle architetture perfettamente in linea con lo stile acido e visionario di Hendrix, intervallando tracce di cesura a lunghissime jam sessions caratterizzate da enormi spazi strumentali, secondo modalità prettamente psichedeliche. Inoltre, la produzione dell’album vide l’abbandono da parte di colui che scoprì e lanciò Hendrix, il suo manager Chas Chandler, il quale trovandosi in disaccordo con il chitarrista a causa delle lunghissime ed estenuanti sessions decise di abbandonare il progetto.

Iniziano proprio durante questo periodo le numerose collaborazioni di Hendrix con altri musicisti che comparvero in alcune incisioni dell’album. Fra questi troviamo il tastierista Al Kooper, Jack Casady (bassista dei Jefferson Airplane e dei Traffic) e Buddy Miles, grande amico di Hendrix. La folla di musicisti, amici e curiosi che affollarono le sessions dell’album tenutesi ai TTG Studios di Los Angeles non fecero che ostacolare e ritardare il processo creativo della band, oltre a dar vita ai primi screzi all’interno del trio, soprattutto fra Jimi Hendrix e Noel Redding.

Estenuato dal faticoso tour intrapreso dall’Experience nella prima metà del 1969, stanco degli scarsi progressi ottenuti dal trio nel tentativo di dar vita ad un quarto album, e sempre più irritato dal rapporto con Hendrix, Noel Redding lascia l’Experience pochi giorni dopo l’esibizione della band al Denver Pop Festival, tenutasi il 29 giugno 1969.

Con l’abbandono del bassista, Hendrix espresse la determinazione di realizzare un concetto nuovo che aveva in mente: Jimi voleva mettere in piedi un gruppo con una sezione di percussioni e una seconda chitarra per rafforzare e diversificare il sound. Fu durante questo periodo di crisi che entra in scena il bassista Billy Cox, amico di Hendrix fin dai tempi della leva (1961-1962), quando suonavano in giro per i locali del Chitlin’s Circuit passando da una formazione all’altra.
Cox si unì quindi alla band composta da Hendrix, Mitch Mitchell alla batteria, Larry Lee alla chitarra ritmica (fermamente richiesto da Jimi), e a Jerry Velez e Juma Sultan alle percussioni. I Gypsy Sun and Rainbows si presentarono sul palco di Woodstock il 18 agosto 1969, dando vita a più di due ore di musica che consegnarono definitivamente Jimi Hendrix alla storia.

Dig, we'd like to get something straight. We got tired of the Experience... It was blowin' our minds. So we decided to change the whole thing around, and call it Gypsy Sun and Rainbows. Or short, it's nothin' but a Band of Gypsys." [Jimi Hendrix, 18 agosto 1969]

Il dopo Woodstock segnò la fine della formazione “allargata” che non riuscì a trovare una ben precisa direzione da seguire in studio. Il nuovo manager di Jimi, Michael Jeffery, non fu mai del tutto entusiasta della nuova strada intrapresa dal chitarrista, e i rapporti fra il management e i membri del gruppo andavano deteriorandosi. Larry Lee e Jerry Velez furono i primi a lasciare il gruppo per seguire altre possibilità.
Anche le condizioni di Hendrix diventavano sempre più precarie: Jimi sentiva aumentare le pressioni intorno a lui e inoltre non riusciva a realizzare il suono e gli sviluppi che si era atteso dal gruppo allargato.

Dopo altri tentativi durante alcune registrazioni al Record Plant di New York, anche l’amico Billy Cox si vide costretto a lasciare il gruppo per tornare a Nashville. La fine della band arrivò a settembre, quando vista l’incapacità di portare a termine le registrazioni intraprese in precedenza, anche Mitch Mitchell abbandona il gruppo e decide di tornare in Inghilterra.
A quel punto Jimi, esaurito e depresso, chiuse i battenti per ritirarsi nel suo appartamento e annegare in un mare di dubbi e ansie.

Oltre ai problemi legati alla creatività musicale, Hendrix quell'anno dovette far fronte ad una serie di controversie legali con le case discografiche PPX e Capitol. Il chitarrista si trovò a dover sbrogliare alcuni problemi connessi alla risoluzione del contratto sottoscritto a favore di Ed Chalpin nel 1965: la controversia venne risolta amichevolmente, con la disponibilità del chitarrista a registrare un LP sotto il suo regime di produzione.

Jimi doveva al più presto fornire a queste case discografiche delle registrazioni da pubblicare. E proprio in queste circostanze vennero in suo aiuto Billy Cox e Buddy Miles. In ottobre, nacque quel power-trio, come venne definito, che prese il nome di Band of Gypsys.

Buddy ed io prendemmo la stessa identica decisione: aiutare il nostro amico. Così diventammo la Band of Gypsys.” [Billy Cox]

Nei mesi successivi, il nuovo trio si trasferirà ai Juggy Sound Studio e ai Record Plant di New York per assemblare materiale vecchio e nuovo, nel tentativo di produrre un album.
L’obiettivo centrale del progetto era di preparare alcuni brani nuovi o ancora in fase di scrittura, il tutto mirato non a ricreare il sound dell’Experience, bensì a dar vita ad un’impostazione decisamente più “black” e più in spirito da jam session. Da ottobre a dicembre la band non organizzò alcun concerto, intenta a preparare del buon materiale da proporre per un grande ritorno sulle scene.

La Band of Gypsys nacque nell’ufficio di Alan Douglas, con Bill Graham che ci aveva organizzato le serate al Fillmore East. Io e Jimi eravamo andati a chiedergli se ce le avrebbe fatte fare e lui non riusciva a crederci.” [Buddy Miles]

L’occasione per il debutto della nuova dirompente formazione arrivò proprio a cavallo fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Quasi a voler simboleggiare il punto di transizione fra la fantastica decade che ha regalato alla musica e alla storia nuovi miti, nuovi generi, nuovi stili e nuovi immaginari collettivi, e la successiva decade dove tutti quegli esperimenti, quelle emozioni ed esperienze, quelle follie divengono mature e aprono la strada a nuove concezioni musicali, la Band of Gypsys debutta in pubblico con ben 4 show (tutti sold-out) svoltisi fra la sera del 31 dicembre 1969 e il 1 gennaio 1970 al leggendario Fillmore East di New York.

Jimi e compagni non si lasceranno sfuggire l’irrepetibile evento in una serata così importante e nell’unico locale al mondo dove l’intera musica degli anni ’60 ha avuto la possibilità di mostrarsi al pubblico americano.

The Fillmore is proud to welcome back some old friends with a brand new name… a Band of Gypsys.” [Bill Graham, 31 dicembre 1969]

I festeggiamenti della vigilia iniziarono con un giovane complesso gospel, le Voci dell’East Harlem. Dopodiché, il trio, annunciato con orgoglio dal grande Bill Graham, infiammò letteralmente il Fillmore con una performance scintillante di 75 minuti.

Il pubblico non sapeva davvero cosa aspettarsi da noi, ma dal momento in cui suonammo la prima nota, rimasero incantati.” [Billy Cox]

A mezzanotte, il nuovo decennio venne annunciato attraverso il brano “Auld Lang Syne” che rimbombava nell’intero auditorium, ripreso subito dopo da Jimi secondo la sua maniera classica che ha reso famosa la sua interpretazione dell’inno americano a Woodstock e di quello inglese alla Royal Albert Hall nel febbraio 1969.
Su Manhattan era appena comparsa l’alba quando la band lasciò il locale nelle prime ore del mattino del primo gennaio 1970, dopo aver regalato soltanto un accenno di quello che verrà considerato uno degli eventi live più famosi e trascinanti della storia. Jimi, Buddy e Billy infatti tornarono al Fillmore la sera stessa per gli altri due entusiasmanti show.

La Band of Gypsys lasciò definitivamente il Fillmore fiduciosa di aver ridato vigore alle potenzialità di Hendrix e soprattutto di aver dato credito e valore alla sua “nuova” musica.

Dopo i concerti del Fillmore, Jimi era del tutto risollevato. Sentimmo che l’intera situazione era andata a buon fine e che tutti e tre avevamo davvero dato il massimo, sia tecnicamente che emotivamente.” [Billy Cox]

Ancora una volta, l’elemento essenziale del nuovo trio di Hendrix divenne l’improvvisazione, anche in questo caso traendo ispirazione dai grandi “modelli” quali il leggendario trio di Buddy Guy, e soprattutto l’impostazione da jam band adottata da un’altra magica triade, i Cream.
Ma la vera differenza fra l’Experience e la Band of Gypsys va ricercata nella struttura ritmica.
Buddy Miles assunse la funzione di “cronometro” del gruppo serrando il ritmo attraverso il suo possente drumming, nel quale accentua al massimo il lavoro sul rullante e sui tom, tanto da guadagnarsi il soprannome di “William the Conqueror” (Guglielmo il Conquistatore) datogli dal suo collega Mitch Mitchell, il quale adottò nell’Experience un’impostazione decisamente più jazzistica e meno tumultuosa.

Sopra l’inarrestabile tappeto ritmico creato da Miles, Hendrix e Cox poterono sbizzarrirsi con i riff di chitarra e basso eseguiti all’unisono, caratteristica ricorrente in quasi tutte le performance del gruppo. Jimi, inoltre, introdusse una sua nuova caratteristica: specialmente in brani quali “Who knows”, “Power of soul” e “Machine gun”, richiamava l’attenzione di Billy e Buddy con un semplice movimento della testa o sollevando il manico della chitarra per effettuare improvvisi cambi di tempo o di tonalità.
Una nota di merito va alla straziante “Machine gun”, nella quale Jimi esprime tutto il suo dissenso contro la guerra del Vietnam attraverso 12 minuti di riff percussivi e distorti e uso del feedback che simulano boati di aerei ed elicotteri da combattimento, esplosioni di bombe e mitragliatrici (da qui il titolo del brano) in quella che è considerata una delle migliori performance di chitarra elettrica mai registrate dal chitarrista.

Nei 4 show della band vediamo alternarsi brani nuovi, interamente arrangiati ed eseguiti in studio dal trio, con alcuni capisaldi della produzione Experience come “Stone free”, “Voodoo child” e “Wild thing”. Jimi era consapevole di poter contare su un sostanzioso seguito dell’Experience al Fillmore, dove aveva già suonato in precedenza, e proprio questa sicurezza gli permise di riproporre alcuni classici come quelli citati sopra, filtrandoli attraverso il nuovo stile della band: grazie al forte sostegno ritmico di Cox e Miles, Jimi si lanciò in nuovi territori sonori, facendo “ululare” la sua fedelissima Stratocaster attraverso feedback e suoni distorti mai ascoltati prima.

Jimi usò tutti gli effetti del suo armamentario: il Fuzz Face (pedale per il controllo della distorsione), il Wah-wah, l’Uni-Vibe e l’Octavia, ed era davvero incredibile… C’erano spettatori che rimasero a bocca aperta. Durante gli show, a volte rimanevo fermo suonando e guardandolo, e mi immedesimavo nel pubblico. Era davvero ispirato.” [Billy Cox]

Nei concerti trovarono spazio anche alcuni brani di Buddy Miles, come “We gotta live together” e “Changes”, nei quali il batterista mette in mostra le sue superbe qualità di cantante funky-soul, urlando e picchiando sul rullante nei momenti di massima intensità dei brani. Uno spettacolo unico nel suo genere.

Due settimane dopo lo spettacolo, Hendrix si riunì con il tecnico del suono Eddie Kramer per assemblare le registrazioni dei concerti e dare finalmente alla Capitol l’album con il quale avrebbe risolto i suoi fastidi legali. Venne così pubblicato l’album live Band of Gypsys nel marzo 1970, nel quale Jimi inserì “Who knows” e “Machine gun” tratti dal terzo show e “Changes”, “Power of soul”, “Message to love” and “We gotta live together” tratti dal quarto show. Sfortunatamente, alcuni problemi tecnici durante la registrazione in presa diretta al Fillmore resero inutilizzabili alcune strabilianti performance della band durante i primi due set.

Nel 1999, l’Experience Hendrix L.L.C., gestita da Janie Hendrix, Eddie Kramer e John McDermott, pubblicò il postumo doppio album Hendrix - Live at the Fillmore East, nel quale venne inserita l’intera scaletta eseguita dalla band durante i 4 show, regalando ai fan di Jimi un resoconto nettamente più completo di quello straordinario evento musicale. Poco dopo venne pubblicato anche un dvd-documentario intitolato Hendrix - Band of Gypsys, con alcuni splendidi filmati del concerto, storia della band e interviste ai protagonisti Buddy Miles e Billy Cox, agli altri due membri dell’Experience, Noel Redding e Mitch Mitchell, e ad altri artisti, produttori discografici e amici di Jimi Hendrix.

Il futuro della Band of Gypsys venne compromesso il 28 gennaio 1970. Durante un concerto al Madison Square Garden, dopo due sole, faticate canzoni Hendrix aveva abbandonato il palco. Il crollo pubblico di Jimi fece infuriare il suo manager, Michael Jeffery, che licenziò su due piedi Buddy Miles nel camerino.

Quello che accadde fu molto imbarazzante. Io e Buddy arrivammo al Garden e ci dirigemmo nei camerini dove trovammo Jimi, che non stava per niente bene. Sapevamo che era necessario annullare il concerto, perché qualcuno voleva farci fare una pessima figura in pubblico.” [Billy Cox]

Si parlò di un complotto per far uscire di scena la Band of Gypsys, e in particolare i due compagni di Hendrix, con i quali il management non aveva mai stretto ottimi rapporti. La sola verità fu che il gruppo venne sciolto, con grande delusione da parte di tutti i membri, Jimi incluso.

Successivamente alla pubblicazione dell’album, il management spinse Hendrix a rimettere assieme l’Experience per ripristinare l’immagine pubblica che stava crollando di fronte alla disdetta del Madison Square Garden; bisognava inoltre tornare a registrare e pubblicare nuovo materiale per non rischiare la bancarotta con il progetto degli Electric Lady Studios, ovvero gli studi dove Jimi Hendrix avrebbe potuto continuare a scrivere e produrre la sua musica. Purtroppo, ne potrà beneficiare soltanto per poco tempo, visto che morì il 18 settembre 1970, pochi mesi dopo l’inaugurazione dei locali.

L’eredità della Band of Gypsys sopravvive grazie a queste registrazioni e grazie ai rari filmati del Fillmore East. Oggi, soltanto Billy Cox è ancora in vita, ed è fra l’altro l’ultimo compagno di Jimi rimasto, dato che Noel Redding, Mitch Mitchell e Buddy Miles sono scomparsi recentemente. Le loro figure rievocano quelle degli straordinari musicisti che hanno accompagnato verso il successo quello che Rolling Stone Magazine considera come “il più grande chitarrista di tutti i tempi”.


di ANTONINO BONOMO


Tracklist

HENDRIX - BAND OF GYPSYS
(pubblicato nel marzo 1970)
  1. Who Knows
  2. Machine Gun
  3. Changes
  4. Power to Love
  5. Message to Love
  6. We Gotta Live Togheter



HENDRIX - LIVE AT THE FILLMORE EAST
(pubblicato il 23 febbraio 1999)

Disc 1
  1. Stone Free (January 1, 1970 2nd show)
  2. Power of Soul (January 1, 1970 1st show)
  3. Hear My Train A Comin' (December 31, 1969 1st show)
  4. Izabella (December 31, 1969, 1st show)
  5. Machine Gun (January 1, 1970 2nd show)
  6. Voodoo Child (January 1, 1970 2nd show)
  7. We Gotta Live Together (January 1, 1970 2nd show)


Disc 2
  1. Auld Lang Syne (December 31, 1969 2nd show)
  2. Who Knows (December 31, 1969 2nd show)
  3. Changes (December 31, 1969 1st show)
  4. Machine Gun (December 31, 1969 2nd show)
  5. Stepping Stone (January 1, 1970 1st show)
  6. Stop (January 1, 1970 1st show)
  7. Earth Blues (January 1, 1970 2nd show)
  8. Burning Desire (January 1, 1970 1st show)
  9. Wild Thing (January 1, 1970 2nd show)


10 ottobre 2009

Recensione: Skin Deep/Buddy Guy (2008)

La grinta e la voglia (ap)pagano sempre. Alla tenera età di settantre anni, nel 2008 Buddy Guy ha presentato al mondo uno dei migliori album di blues del nuovo millennio. Esplosivo, dolce e a tratti malinconico, il performer per eccellenza dell'electric blues, offre al proprio pubblico una prova di grande maestria compositiva ed interpretativa. A sorregerlo (se ce ne fosse il bisogno) grandissimi personaggi che al grande Buddy devono tantissimo: Eric Clapton, Derek Trucks, Robert Randolph, Susan Tedeschi e il bambino prodigio Quinn Sullivan, "spalle" d'eccezione che prestano il proprio contributo in punta di piedi, quasi intimoriti dal carisma del bluesman della Louisiana.

Un album per appassionati, che di certo non offre nulla di nuovo in termini di stile. Possiamo affermare però che all'interno di Skin Deep vi sono dodici tracce che delizieranno anche i fan più esigenti. I brani, forti di un'ottima produzione e rivestiti con suoni moderni e cristallini entreranno facilmente nel cuore e nella mente di tutti coloro che amano il vecchio(?) Buddy.


di Francesco Giacalone