15 febbraio 2011

"Jazz, Ladies & Chet" di Francesco Ferrari

Venerdì 18 febbraio, aspettando l’ottava edizione del Piacenza Jazz Fest, il Milestone, il jazz club sito in via Emilia Parmense 27 a Piacenza, inaugura una mostra a tema jazzistico del pittore e scultore piacentino Francesco Ferrari. Alcune creazioni dell’artista saranno in mostra al Milestone da venerdì 18 febbraio a domenica 6 marzo. Titolo dell’esposizione è “The Jazz Ladies & Chet” in quanto le immagini si ispirano alle figure di note vocalist della musica jazz e all’indimenticato Chet Baker.

Francesco Ferrari è un pittore e scultore, che vive e lavora a Piacenza. Il suo studio è in via Maculani, vicino alle mura della città antica. Ha frequentato l’Istituto d’Arte “Gazzola” di Piacenza, il “Toschi” di Parma ed infine l’Accademia di “Brera” a Milano, come allievo di Marino Marini e di Alik Cavaliere. La sua tecnica è prevalentemente basata su olio, acrilico su tavola o tela, legno di varie essenze per quanto concerne le sculture. Ha realizzato nel 2002 il manifesto per il ventennale dell’Ordine degli Architetti di Piacenza; ha esposto alla Galleria Nuovospazio, all’Associazione Amici dell’Arte, a Palazzo Gotico.

Nel 2006 espone all’Ambasciata Italiana a Strasburgo all’interno della mostra “Gli artisti e il tricolore”; poi ancora alla Galleria Sala, a Punto Arte e a Palazzo Farnese a Piacenza, nonché alla Galleria Glamour di Brescia. C’è una frase nel testo di una canzone di Paolo Conte che recita: “Le donne non amano il Jazz”.
 Non ci sbilanciamo in statistiche piuttosto personali e soggettive come queste, ma certamente possiamo affermare che le donne ritratte da Ferrari, le ladies del canto jazz, sono passate alla storia per le loro interpretazioni da brivido. Cosi come da brivido sono i tratti di pennello che le raffigura nei quadri di Ferrari esposti al Milestone. Con loro anche un “paio” di Chet Baker particolarissimi, come particolare è la visione dell’artista, filtrata dalla sua sensibilità e dall’armonia “strana e bellissima” della musica jazz.



tratto da cremonaonline.it


12 febbraio 2011

Recensione - I Soliti Sospetti

"La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste, e come niente.. sparisce."

Trama

| Nel porto di Los Angeles esplode una nave sospettata di trasportare droga. L’intero equipaggio risulta morto, tranne Verbal Kint (Kevin Spacey), uno zoppo truffatore che verrà condotto al dipartimento di polizia per ritrovarsi poi interrogato dall’agente di polizia doganale David Kujan (Chazz Palminteri), il quale non crede alla storia raccontata dallo zoppo al procuratore distrettuale e vuole scoprire la verità, soprattutto riguardo all’ex poliziotto corrotto Dean Keaton (Gabriel Byrne), che si sospetta essere morto nell’esplosione.

Sarà proprio Verbal a raccontare la storia, a partire dal confronto all’americana avvenuto nel dipartimento di polizia di New York, durante il quale sia Keaton, sia lo zoppo vengono imputati per il furto di un camion pieno di fucili insieme agli altri protagonisti della vicenda: i ricettatori Ray McManus (Stephen Baldwin) e Fenster (Benicio Del Toro) e lo scassinatore Todd Hockney (Kevin Pollack).

Verbal racconterà all’agente Kujan del colpo fatto dai cinque al “servizio taxi” della polizia di New York, del furto ad un commerciante di gioielli, dell’incontro in California con il ricettatore Redfoot (Peter Greene) e dell’offerta ricevuta dall’avvocato Kobayashi (Pete Postlethwaite). È qui che spunta il nome misterioso di Keyser Söze, attorno al quale si concentreranno tutte le attenzioni dell’agente Kujan e dei suoi colleghi Jack Baer (Giancarlo Esposito) e Jeffrey Rabin (Dan Hedaya), i quali fino alla fine del film saranno vittime dell’abile manipolazione di Verbal, che distoglierà l’attenzione da se stesso grazie alla domanda che “imbambolerà” letteralmente i poliziotti: “Chi è Keyser Söze?”. |


C’è un termine preciso al quale fare riferimento quando un film riesce a rapire, a confondere e a lasciare di stucco lo spettatore; anzi, in questo specifico caso, più termini: il direttore d’orchestra (Bryan Singer), la mente (Christopher McQuarrie) e il mago (Kevin Spacey). Dopodiché, l’intreccio e la bravura degli altri interpreti fanno il resto.

Il regista Bryan Singer dipinge abilmente un’intricata vicenda caratterizzata da criminali, poliziotti, furti, esplosioni, assassini ed un finale mozzafiato che lascia a bocca aperta. Il tocco del regista è in perfetta simbiosi con la storia: sono presenti le scene d’azione, ma manca la pomposità tipica di Hollywood, con azioni drammatiche inverosimili, piene di effetti speciali e scene spettacolari. Singer sa come trattare la materia, e proprio per questo sa che per svelare il grande enigma dell’intera trama sono sufficienti semplici ed efficaci stratagemmi, quali l’inganno, la suspense, gli intrecci, e un gruppo di attori ancora “semisconosciuti” ma pronti per il successo internazionale.

Così come nel suo primo film, Public Access (1993), Singer collabora con il suo amico sceneggiatore Christopher McQuarrie, il quale riprende una delle sue sceneggiature non ancora pubblicate, quella in cui narra la storia di un uomo che uccide la propria famiglia e che poi scompare; la bozza di questa scrittura riceve la spinta necessaria per la creazione della trama grazie all’idea di Singer riguardo sia il titolo del film, sia la presenza di altri 5 personaggi che sono già immaginati dal regista come criminali che si trovano in linea di fronte alla macchina fotografica dell’ufficio “schedati” della polizia (idea che verrà utilizzata per la locandina del film).

McQuarrie scrive varie versioni dello script in cinque mesi, fin quando la sceneggiatura non viene revisionata dal regista e inviata all’attore Kevin Spacey, sul quale McQuarrie aveva proprio basato la figura del personaggio di Verbal Kint. Ed è proprio su Spacey che Bryan Singer punta come elemento cardine del cast, attorno al quale svolgere l’intera vicenda che fin dall’inizio si rivelò abbastanza complicata da realizzare. Kevin Spacey coinvolgerà nel film anche Gabriel Byrne e Benicio Del Toro, i quali rimangono affascinati dalla sceneggiatura.

Per il ruolo di David Kujan, Singer ha sempre avuto in mente Chazz Palminteri prima ancora che Christopher Walken e Robert De Niro rinunciassero al progetto. Alla fine, Palminteri (reduce dalle riprese di Bronx, diretto dallo stesso De Niro) accettò ritagliandosi soltanto una settimana disponibile per girare le uniche scene del film in cui compare con Kevin Spacey nella stazione di polizia, scene che furono girate per prime. Le riprese durarono soli 35 giorni utilizzando varie location di Los Angeles, San Pedro e New York. Per il film intero venne impiegato un budget di circa 6 milioni di dollari.

Gli attori sono stati pienamente coinvolti nella realizzazione dei loro personaggi, come dirà lo stesso Bryan Singer a proposito del casting: “Il trucco sta nel reclutare degli attori non per quello che sono, ma per ciò che tu immagini possano diventare.” Tutto il gruppo si trovò ad esercitarsi sulle battute attraverso delle improvvisazioni durante le prove (per assimilare meglio il copione). Secondo le interviste rilasciate da Gabriel Byrne, gli attori si abituarono abbastanza rapidamente all’idea di lavorare insieme come fossero una vera banda di criminali, e gli episodi di ilarità durante le riprese non mancarono, tanto che alcune scene dovettero essere ripetute più volte a causa delle continue risate.

Una vera nota di merito va assegnata a tutti gli attori protagonisti, con il sempre “elegante” Byrne che conduce il gioco, lo straordinario Benicio Del Toro (al suo primo vero ruolo), lo schizofrenico Stephen Baldwin, fino ad arrivare all’incredibile Kevin Spacey che interpreta uno dei suoi ruoli più difficili e particolari. Prima delle riprese, incontra dei dottori ed esperti sulla paralisi celebrale per capire come meglio calarsi nel ruolo di Verbal Kint. Insieme al regista sceglie così di paralizzare il lato sinistro del corpo, padroneggiando perfettamente il finto handicap per tutta la durata del film; il tutto unito al suo inimitabile sguardo quasi assente, come fosse sempre fra le nuvole. Ma il suo personaggio sarà tutt’altro che stupido come può sembrare in apparenza, dal momento che si rivelerà la vera mente dell’intera storia.

Il film viene presentato fuori concorso nel 1995 al 48° Festival di Cannes. Oltre all’incredibile successo di critica e di pubblico che farà dei “soliti sospetti” delle vere e proprie star, il film riceve due importanti riconoscimenti: l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale per Christopher McQuarrie, e il meritatissimo Oscar al migliore attore non protagonista per Kevin Spacey, che raggiunge così il suo primo apice della carriera, superato nel 2000 dall’Oscar al migliore attore protagonista per l’altra sua incredibile performance in American Beauty di Sam Mendes. Grazie al successo del film, Bryan Singer raggiunge la notorietà come regista affermato e si imbatterà così in altri importanti capitoli del cinema moderno (X-Men, X-Men 2, Superman Returns e Operazione Valchiria).


di ANTONINO BONOMO


Scheda film

THE USUAL SUSPECTS, 1995

Regia: Bryan Singer
Paese
: Stati Uniti
Genere: thriller, giallo
Soggetto: Christopher McQuarrie
Sceneggiatura: Christopher McQuarrie
Fotografia
: Newton Thomas Sigel
Musiche: John Ottman


Interpreti e personaggi

Gabriel Byrne - Dean Keaton
Kevin Spacey - Verbal Kint
Chazz Plaminteri - David Kujan
Kevin Pollack - Todd Hockney
Pete Postlethwaite - Kobayashi
Stephen Baldwin - Ray McManus
Benicio Del Toro - Fenster
Peter Greene - Redfoot
Suzy Amis - Edie Finneran
Dan Hedaya - Jeffrey Rabin
Giancarlo Esposito - Jack Baer


11 febbraio 2011

Mick Jagger nella capitale... in fotografia.

Arriva a Roma la mostra "Mick Jagger - The Photobook", a cura di François Hébel, prodotta dalla Fondazione Forma per la Fotografia di Milano e dai Recounters Internationales de Photographie di Arles e promossa dall Fondazione Musica per Roma.

La retrospettiva è dedicata all'immagine dell'uomo che non solo ha fatto la storia del rock ma che è diventato icona di stile e di costume. Un viso che cambia, una personalità da camaleonte, lo sguardo sfrontato, il corpo scattante, le labbra sensuali: ecco l'icona del rock che più di tutte ha attraversato la storia della musica degli ultimi quarant'anni popolando l'immaginario di generazioni di giovani e fan.

"Mick Jagger - The Photobook" presenta una serie di 70 ritratti realizzati dai grandi fotografi che dall'inizio della sua carriera ad oggi lo hanno incontrato, fotografato, documentando il suo viso particolare e la sua capacità di essere un personaggio sempre nuovo, sempre diverso, sempre controcorrente.



Dai primi scatti degli anni '60 di Goodwin, Mankowitz e Périer e attraverso le sperimentazioni di Cecil Beaton, fino ai recentissimi ritratti di Annie Loibovitz, Karl Lagerfeld, Anton Corbijn, Mark Seliger e Bryan Adams si ripercorrono le metamorfosi di chi ha contribuito a creare l'estetica del rock e non solo.



dal 22 febbraio al 27 marzo - Foyer Auditorium
Auditorium Parco della Musica
viale Pietro de Coubertin
00196 Roma

ingresso libero

8 febbraio 2011

La promessa dell'assassino - Recensione

Una ragazza russa muore partorendo una bambina, l’allevatrice legge il diario della defunta e cerca di rintracciare le origini della famiglia per affidarne la custodia. Conoscerà Nikolai, servo della mafia russa, e sarà travolta dal tumultuoso scorrere degli eventi tra degrado, prostituzione e criminalità. Per il suo 16° lungometraggio, Cronenberg sceglie un’altra storia di violenza e di rimpianti dove ancora una volta è il passato a condizionare la vita di un uomo e le sue azioni.

Quello che in apparenza sembra possedere la scorza di un thriller gangsteristico contiene invece in sé le caratteristiche, i significati e la profondità di una vera e propria tragedia morale. Attraverso una scrittura di asciutta semplicità, Cronenberg dipinge la crudeltà di un microcosmo malato e corrotto, inevitabilmente contaminato dalla violenza e dall’avidità di potere.

A far da sfondo a questo spietato affresco vi è una Londra assente, inerme alle contraddizioni e alle malvagità della vita; è anch’essa spettatrice di quell’universo ottuso e dittatoriale che è l’emblema del lato oscuro dell’umanità, il suo legno storto. Come in “A history of violence”, che può essere considerato il suo corrispettivo, Cronenberg effettua una radiografia dell’animo umano, analizzandone soprattutto la componente animalesca: istinto di sopravvivenza, vendetta, invidia. Sorretto da un tono funereo e segnato da squarci di violenza improvvisa, l’ultima pellicola del grande regista canadese è anche un apologo sulla labilità e l’ambiguità della moralità umana.Tutto ciò che non c’è o meglio non viene detto nella sceneggiatura di Steve Knight si carica di un’ambivalenza significativa e misteriosa al punto che l’ignoto diventa un pregio, non un difetto.

Attraverso l’interessante teoria secondo cui gli schiavi partoriscono schiavi, Cronenberg elabora un discorso sulla virulenza del destino che contagia le sue vittime scegliendole con preferenze di sesso, classi sociali, nazionalità. Il mondo delle persone “normali” si trova al di fuori di quello che è l’habitat “naturale” del mondo criminale: un ristorante cupo e purpureo come il sangue che lo intinge. Il personaggio di Nikolai, nella sua rassegnata e sconsolata visione che ha del mondo, rappresenta la chiave di lettura del film: egli è sull’orlo di un abisso, in perenne oscillazione tra il bene e il male. Dopo una notevole azione benefica nei confronti di Anna e della di lei figlia adottiva, in questa pessimistica eppur non nichilista visione della realtà umana, la voce fuori campo di Tatjana pronuncia le stesse parole del folgorante incipit iniziale: “Tutti noi, in Russia, siamo nati già morti”. Il finale antiretorico, senza lieta fine né catarsi, è coerente con il resto del film e lascia spazio d’interpretazione allo spettatore.

Due le scene memorabili in cui il regista riesce a portare il suo sguardo visionario ad un livello di stregonesca abilità: la sequenza in cui Nikolai, disarmato, si trova a dover affrontare due gangster sullo sfondo di una sauna tanto onirica quanto inquietante, degna di entrare in una ideale antologia di scene d’azione e quella in cui il protagonista si trova al cospetto della cosca criminale e presta il suo giuramento all’organizzazione attraverso l’incisione dei tatuaggi; metafora di ciò che non si può dimenticare, è accaduto, accade e forse continuerà ad accadere.

di Danilo Cristaldi
(dal sito MyMovies.it)

Rosemary's Baby - La quintessenza di Polanski

Il sospetto di Rosemary Woodhouse è che suo marito, con la complicità dei suoi arzilli vicini di casa, abbia fatto un patto con il diavolo: dare suo figlio in cambio del successo e della ricchezza. Sarà vero?
E’ forse uno dei migliori horror psicologici della storia del cinema; un mirabile esempio di suspense, paura, angoscia; un film di genere che ne trascende i limiti per virtù di stile.

Nel mostrare il regno del Male Polanski si affida ad una scrittura claustrofobica, sinuosa, quasi perfida ma mai sadica, mantenendo sempre una costante sobrietà nello stile e lucidità nella descrizione psicologica dei personaggi. Sceglie quasi sempre di mettere spavento usando la tecnica del “non mostrare”, iniettando così nello spettatore un’ansia che è frutto proprio dell’impossibilità di vedere cosa c’è al di là del visibile.

Nella 6° pellicola di Roman Polanski il mistero è l’elemento principale. La verità è nascosta sino alla fine, utilizzando il celebre dilemma: follia o ragione? Mia Farrow è straordinaria nell’aderire al proprio personaggio: donna sola incontro a una miriade di difficoltà e ostilità. L’inquietante atmosfera creata dalla regia è un ammirevole esempio di orchestrazione dei contenuti. Avendo imparato la lezione di Hitchcock, il regista dosa ogni ingrediente: suspense, mistero, talento visivo e narrativo, con un gruppo di “cattivi” memorabile e impressionabile. E’ tipico di Polanski affidare la parte più minacciosa a Ruth Gordon (che si guadagnò anche un Oscar), esemplare vicina premurosa, forse troppo. Con il passare degli anni, “Rosemary’s baby” è divenuto un classico “film di mezzanotte”; non ha perso nulla; anzi, guardando il panorama cinematografico “horror” degli ultimi anni, innesca un’imprevedibile vena di nostalgia.

di Danilo Cristaldi

(dal sito MyMovies.it)

7 febbraio 2011

Recensione: The Allman Brothers Band

La genesi, il prologo, la creazione di quello che diventerà un sound unico, inimitabile e al tempo stesso fonte di ispirazione per decine e decine di musicisti; un’intera generazione musicale “prelevata” di peso dagli anni ’60 per essere stravolta, arricchita e proiettata verso il futuro: in breve, The Allman Brothers Band, ovvero il debutto della formazione originale di una delle più influenti sfaccettature del rock moderno.

Gli Allman Brothers sono sempre stati considerati i padri fondatori di quello che viene definito il southern rock, noto anche come quel fenomeno musicale che proprio verso la fine degli anni ’60 catapultò il blues tradizionale nella mischia del rock, del country, del gospel e dell’honky tonky per essere rigenerato in una forma ancora più innovativa e stravolgente, dove la fantasia e la creatività musicale raggiunsero dei livelli tali da poter competere con l’istrionismo del progressive e del rock psichedelico. La loro musica sarà fonte di ispirazione per le principali band che nasceranno proprio nel sud degli Stati Uniti: i Dixie Dregs, i Molly Hatchet, The Marshall Tucker Band, fino ad arrivare ai più noti Lynyrd Skynyrd.

La strada per l’immortalità della band inizia nei primi anni ’60, quando i fratelli Duane e Gregg Allman scoprono la loro comune passione per la chitarra e iniziano a suonare con le prime formazioni, Allman Joys, The Hour Glass. Sarà Duane il vero propulsore del sound degli Allman, il quale inizia a recepire le influenze del blues, del rock e del country girando per l’Alabama e lavorando come session-man per musicisti del calibro di Wilson Pickett, Otis Rush, Delaney & Bonnie, Herbie Mann e Aretha Franklin.

La nascita della band avviene ufficialmente il 23 marzo del 1969, a Jacksonville, in Florida: come raccontano gli stessi protagonisti, viene organizzata una jam session nel garage di Butch Trucks, batterista e amico dei fratelli Allman, alla quale partecipano Duane Allman, il batterista Jai “Jaimoe” Johanson, il chitarrista Dickey Betts e il bassista Berry Oakley, questi ultimi due compagni di avventura di Duane durante il suo vagabondare per l’Alabama. Qualche giorno dopo, sarà lo stesso Duane a convincere il fratello Gregg ad unirsi al gruppo come tastierista e cantante, definendo così la line-up della Allman Brothers Band che debutta poco dopo al Jacksonville Beach Coliseum.

L’incredibile energia sprigionata dalla nuova jam band impressiona il produttore Phil Walden, il quale mette sotto contratto il gruppo garantendogli la partecipazione ad un importante evento dello stesso anno, l’Atlanta International Pop Festival, e la registrazione del loro primo album che viene registrato nel settembre del 1969 agli Atlantic Studios di New York.

Nasce proprio con questo disco ciò che verrà definito southern rock; c’è tutto quello che serve per una vera e propria esplosione musicale: il timbro vocale di Gregg Allman a metà tra il soul ed il gospel (sostenuto abilmente dal suo organo talvolta in chiave hard rock, talvolta perfino jazz), una instancabile e versatile sezione ritmica composta da ben due batteristi (Butch Trucks e Jai “Jaimoe” Johanson, quest’ultimo spesso alle percussioni) accompagnata dal brillante basso di Berry Oakley, il tutto deliziato dal tocco finale di due eccezionali chitarristi come Dickey Betts e Duane Allman.


È un vero uragano quello che parte fin dal primo brano interamente strumentale, dove i cambi di tempo tipici del progressive creano lo sfondo adatto per le due infuocate chitarre all’unisono di Duane e Betts; senza un attimo di respiro si passa alla seconda traccia, “It’s not my cross to bear”, uno straziante blues lento che raggiunge l’apice con la “cavalcata” ritmica finale. Ed eccoci arrivati a “Black hearted woman”, forse il brano che più di tutti mostra la creatività della band, che spazia da riff hard rock a ritmi country e sincopati, dove Duane trova pane per i suoi denti.


In “Trouble no more”, blues firmato Muddy Waters, è la chitarra slide a farla da padrona, un’altra brillante caratteristica del virtuosismo di Duane Allman. Sarà il fratello Gregg a dominare con la sua voce in “Every hungry woman” che precede i due ultimi brani del disco, due veri capolavori: “Dreams”, una vera e propria perla, dove la band mostra tutta la sua versatilità con la metrica jazzistica in 12/8, le atmosfere country e psichedeliche e il tour de force di Duane alla chitarra slide; si chiude con “Whipping post” che diventerà un’epica jam abitudinale in ogni esibizione live del gruppo, con l’introduzione del basso in 11/4, e nuovamente i cambi di tempo, le improvvisazioni chitarristiche e il finale “rallentato” in stile blues.


Gli Allman Brothers ottengono un successo immediato grazie alle novità musicali contenute nell’album, e divengono leggenda continuando a sperimentare e a stupire con i successivi lavori in studio, Idewild South del 1970 (che otterrà ancora più successo rispetto al primo album), At Fillmore East del 1971 (che diventerà disco d’oro, oltre che uno dei migliori album live mai registrati) e Eat A Peach, pubblicato nel 1972, pochi mesi dopo la morte prematura di Duane Allman.


La prima parentesi della storia della Allman Brothers Band si conclude proprio con la morte del virtuoso chitarrista il 29 ottobre 1971 in un incidente motociclistico nei pressi di Macon, in Georgia. Fu Dickey Betts a completare le parti di chitarra di Duane per l’album Eat A Peach che a lui venne dedicato dai suoi compagni. La stessa sorte toccherà al bassista Berry Oakley l’anno seguente, anch’egli morto in un incidente motociclistico, nei pressi del luogo dell’incidente dove morì Duane l’anno prima.

“Skydog” Duane Allman entra così nella leggenda a 24 anni, dopo aver lasciato la sua impronta nella storia della chitarra rock, rimanendo inoltre uno dei più virtuosi chitarristi slide. La sua opera e la sua passione per la musica rimarrà scolpita, oltre che nei lavori con gli Allman Borthers, anche nell’epico album dei Derek & The Dominos, Layla and Other Assorted Love Songs. Duane contribuirà a rendere il disco firmato Eric Clapton un’infuocata miscela di virtuosismi chitarristici e di melodie struggenti, in particolare nella celebre “Layla”, dove viene fuori tutta la grinta e l’alchimia musicale che Clapton e Allman condivisero come fossero fratelli.

Il nome Allman Brothers Band conoscerà il carisma e l’eccezionale bravura di altri talentuosi musicisti, fra i quali spiccano il carismatico chitarrista e cantante Warren Haynes, già membro della band The Dead (ovvero ciò che è rimasto dei Grateful Dead dopo la morte di Jerry Garcia nel 1995), Derek Trucks, il chitarrista prodigio, nipote del batterista fondatore degli Allman Brothers, Butch Trucks, senza dimenticare anche Chuck Leavell, tastierista autodidatta che suonò con gli Allman in un paio di album e che in seguito verrà ingaggiato da altri artisti famosi quali Eric Clapton e Rolling Stones.


Gli strazianti bending di Warren Haynes, uniti al raffinatissimo stile finger-picking di Derek Trucks e all’esperienza degli altri membri originali della band, hanno fatto si che gli Allman Brothers continuassero a produrre ottimi risultati dal punto di vista musicale e commerciale, ma sicuramente non esaltanti e irripetibili come l’impatto generato dalla prima formazione, da quel ritmo così trascinante e innovativo, da quei riff taglienti e da quei colori che solo il loro vero creatore, quel ragazzo mingherlino con una Les Paul baciata dagli dei, è riuscito a rendere talmente vividi da non sbiadire mai di fronte alle intemperie del music business.



di ANTONINO BONOMO


Tracklist

THE ALLMAN BROTHERS BAND
(Atco-Capricorn Records, novembre 1969)
  1. Don't want you no more (Spencer Davis, Eddie Hardin)
  2. It's not my cross to bear (Gregg Allman)
  3. Black hearted woman (Gregg Allman)
  4. Trouble no more (McKinley Morganfield)
  5. Every hungry woman (Gregg Allman)
  6. Dreams (Gregg Allman)
  7. Whipping post (Gregg Allman)


Line-up:

Gregg Allman - vocals, organ
Duane Allman - lead guitar, slide guitar
Dickey Betts - guitar
Butch Trucks - drums
Jai "Jaimoe" Johanson - drums, congas
Berry Oakley - bass guitar, backing vocals


1 febbraio 2011

Woody Allen con la New Orleans Jazz Band

Save the date.

È iniziata la prevendita dei biglietti dell’unica data italiana del concerto WOODY ALLEN AND HIS NEW ORLEANS JAZZ BAND che si terrà all’Auditorium Conciliazione di Roma il prossimo 26 marzo: unica data italiana della tournée per una serata esclusiva di beneficenza in favore dell’Associazione Bambin Gesù.



Woody Allen
, che alla passione per il cinema, ha sempre unito l’amore per la musica jazz, soprattutto quella classica degli anni Trenta e Quaranta, quasi una costante nelle colonne sonore dei suoi film, torna nella capitale nelle vesti di clarinettista con la New Orleans Jazz Band per una serata benefica.

Il famoso attore e regista suona infatti il clarinetto da più di trentacinque anni, regolarmente, ogni settimana a New York allo storico hotel di Manhattan, The Carlyle, e poi in giro per il mondo, soprattutto in Europa. A parte i rari casi nei quali il regista è fuori città per la lavorazione dei suoi film, nulla lo tiene lontano dai concerti newyorkesi del lunedì sera, fosse anche la consegna di un Oscar (cerimonia tra l’altro sempre disertata).

Woody Allen e la sua band suonano in pubblico la musica che l’attore e regista ha amato fin dall’infanzia, e che si ispira ad artisti leggendari come Sidney Bechet, George Lewis, Jonny Dodds, Jimmie Noone e naturalmente Louis Armstrong. Il repertorio è composto da oltre milleduecento pezzi tra marce, blues, rags e numerosi motivi popolari. Ogni performance è un susseguirsi di improvvisazioni: non esiste una scaletta, e i musicisti non sanno mai quale canzone Allen e il direttore musicale Eddy Davis avranno intenzione di suonare.

Nel 1996 la Band ha intrapreso il suo primo tour europeo che è stato narrato nel film documentario Wild Man Blues seguito dall’omonimo CD. Prima di ogni concerto il regista è solito dire al pubblico "Suono la musica della vecchia New Orleans", con l’aria di voler giustificare che, come allora, stecche e scivolate di tono possono essere all’ordine del giorno.

Ad affiancare Woody Allen al clarinetto, il direttore musicale Eddy Davis (banjo), Simon Wettenhall (tromba), Jerry Zigmont (trombone), Conal Fowkes (piano), Greg Cohen (contrabbasso), John Gill (batteria).



tratto da www.cinespettacolo.it