14 dicembre 2011

Ac/Dc "Live at River Plate" recensione


Ci sono novità, di tanto in tanto che non t'aspetti. Ci sono band che ormai, si crede, abbiano dato già tutto. Nel cinico mondo del rock n' roll non ci si scandalizza più di nulla: reunion poco credibili, avvicendamenti, album, greatest hits e live concepiti solo in nome del Dio denaro.

Ma poi capita, per caso, di imbattersi in un dvd come Ac/Dc Live at River Plate, per rimanere a bocca aperta. Un "lavoro" tirato su con le migliori tecnologie, in cui suono e immagini si sposano alla perfezione. Ebbene sì, questo live in Argentina, tratto dall'ultimo tuor della band australiana è quanto gli amanti del rock vorrebbero trovarsi nei negozi almeno una volta mese.

La band gira al massimo, nonostante i capelli bianchi e gli anni passati sulla via del rock. Brian Johnson, in forma vocale smagliante e Angus Young sembrano davvero a loro agio, davanti agli iper-saltellanti giovani "tifosi" argentini. Un pubblico, appunto, che celebra alla grande i nonni più elettrizzanti dell'hard rock. Mai gli spettatori di un concerto, ripresi da decine e decine di telecamere, sono stati così parte integrante dello show. La registrazione del concerto ha richiesto infatti l'uso di 32 videocamere ad alta definizione, grazie alla produzione di una compagnia chiamata Serpent Productions.

Mai come su "Live at River Plate, si ha la sensazione di essere stati davvero lì, sudati, con le orecchie sanguinanti, e il cuore che batte a mille.
Probabilmente insieme a "Shine light" dei Rolling Stones, diretto da Scorsese, il miglior connubio fra musica e immagini nel genere rock.
              
                                                                                                                           di Francesco Giacalone

TRACKLIST:
"Rock 'N Roll Train" (Angus Young, Malcolm Young)
"Hell Ain't a Bad Place to Be" (Bon Scott, A. Young, M. Young)
"Back in Black" (Brian Johnson, A. Young, M. Young)
"Big Jack" (A. Young, M. Young)
"Dirty Deeds Done Dirt Cheap" (Scott, A. Young, M. Young)
"Shot Down in Flames" (Scott, A. Young, M. Young)
"Thunderstruck" (A. Young, M. Young)
"Black Ice" (A. Young, M. Young)

"The Jack" (Scott, A. Young, M. Young)
"Hells Bells" (Johnson, A. Young, M. Young)
"Shoot to Thrill" (Johnson, A. Young, M. Young)
"War Machine" (A. Young, M. Young)
"Dog Eat Dog" (Scott, A. Young, M. Young)
"You Shook Me All Night Long" (Johnson, A. Young, M. Young)
"T.N.T." (Scott, A. Young, M. Young)
"Whole Lotta Rosie" (Scott, A. Young, M. Young)
"Let There Be Rock" (Scott, A. Young, M. Young)
"Highway to Hell" (Scott, A. Young, M. Young)
"For Those About to Rock (We Salute You)" (Johnson, A. Young, M. Young)


FORMAZIONE:
Brian Johnson - Voce
Angus Young - Chitarra solista
Malcolm Young - Chitarra ritmica, cori
Cliff Williams - Basso elettrico, cori
Phil Rudd - Batteria

10 dicembre 2011

JaZz Portrait : Wes Montgomery

John Leslie Wes Montgomery nasce il 6 marzo del 1923 a Indianapolis; cresce in una famiglia di musicisti e inizia ben presto ad avvicinarsi al jazz ascoltando i dischi del suo idolo Charlie Christian. All’età di 12 anni imbraccia la sua prima chitarra, una 12 corde, ma la vera folgorazione arriverà quando a vent’anni acquista la prima chitarra semiacustica e, non sapendo leggere la musica, inizia ad imparare a memoria tutti i soli di Christian.

La sua totale dedizione alla chitarra jazz cattura l’attenzione di Lionel Hampton che lo inserisce nella sua storica band al fianco di Charles Mingus, Milt Buckner e Johnny Griffin. Wes affronterà un lungo e faticoso tour al termine del quale deciderà di tornare ad Indianapolis per dedicarsi alla moglie e ai figli. Alternerà quindi la sua attività di musicista con il lavoro in fabbrica per poter mantenere la famiglia, mentre trascorrerà le notti suonando in giro per i locali e al tempo stesso esercitandosi a casa e mettendo a punto la sua tecnica chitarristica che diventerà un vero e proprio “manuale d’istruzione” per le future generazioni di chitarristi jazz.

Il suo talento innato cattura l’attenzione del sassofonista Cannonball Adderley il quale riesce a fargli avere un contratto con la Riverside Records. Montgomery sarà così presente nell’album Poll Winners (1960) di Adderley e nel frattempo pubblica alcune registrazioni con i suoi fratelli a nome Montgomery Brothers. Iniziano così le collaborazioni con i grandi del jazz del momento: Wes registrerà con il Wynton Kelly Trio (ex line-up di Miles Davis) e parteciperà a delle jam session con il gigante John Coltrane, ma resterà sempre dedito ai suoi progetti personali rifiutando persino l’ingaggio da parte dello stesso Coltrane.

Continuerà così a pubblicare album a suo nome per tutta la prima metà degli anni ’60, e nel frattempo il suo stile si discosta sempre più dal bebop e dall’hard-bop per orientarsi verso un pubblico più eterogeneo (non mancherà infatti la presenza dell’orchestra in alcuni dei suoi ultimi lavori).
Raggiunta la fama internazionale grazie anche a pietre miliari del jazz quali Boss Guitar (1963), Smokin’ at The Half Note (1965) e A Day in The Life (1967), Wes Montgomery muore per un attacco cardiaco il 15 giugno del 1968 all’età di 45 anni.



“Ascoltare la chitarra di Wes Montgomery crea lo stesso brivido che provi quando barcolli sull’orlo di un precipizio…”

[Gunther Schuller - compositore, direttore d’orchestra]



Quando Charlie Christian venne allo scoperto, la chitarra elettrica divenne realtà. Quando Django Reinhardt decise di non arrendersi alla menomazione della sua mano sinistra, il jazz manouche divenne realtà. Quando Wes Montgomery mise le mani (anzi il suo pollice) sulla sua prima chitarra semiacustica, la chitarra jazz non fu più la stessa.

Il bebop, l’hard bop e il free jazz avevano in Charlie Parker, John Coltrane, Dizzy Gillespie, Sonny Rollins e Miles Davis i loro inventori e paladini; lo strumento a 6 corde aspettava ancora il suo “paladino elettrico” e nonostante lo scalpore provocato dai suoi colleghi predecessori, Wes Montgomery fu veramente il primo chitarrista jazz a tirar fuori dal suo strumento un suono prorompente e talmente incisivo da restare impresso per sempre nelle antologie del jazz a lui contemporaneo e in quelle delle future generazioni.



Numerose sono le sfumature del bebop; a volte si confondono, altre volte tutte queste “etichette” creano solo confusione. Ma in mezzo alle innumerevoli creazioni di quei geni-chitarristi-ribelli, talvolta riesci a riconoscerne subito il “tocco”: quello di Wes Montgomery colpisce subito l’orecchio per la sua limpidezza, e non solo. È il suono morbido, originale nonché uno dei più completi che verrà poi tramandato ed interpretato da tutti gli appassionati del genere.

La particolarità che rende unico Wes fra tutti gli altri mostri sacri della chitarra jazz è nascosta proprio dietro al suo “tocco”, il quale nasce quasi casualmente quando Wes (non ancora musicista a tempo pieno), lavorando tutto il giorno come operaio, poteva dedicarsi alla sua amata chitarra soltanto durante la notte. La leggenda vuole che Wes, per non disturbare la moglie e i figli durante le ore notturne, imparò a suonare la chitarra utilizzando solo il pollice della mano destra, evitando così di far troppo rumore e sviluppando di conseguenza una completa padronanza e un controllo tale da permettergli di sbarazzarsi del plettro e far uscire quel suono così morbido e quasi “felpato” che lo contraddistingue.


L’originalità di Wes Montgomery si manifesta anche nel suo stile: il virtuosismo diventa il suo asso nella manica e viene svelato solo a piccole dosi e nei momenti giusti. Così, Wes inizia ammaliando con i temi degli standard oppure con quelli scritti di proprio pugno, prosegue con dei piccoli tocchi di classe di “riscaldamento” per poi arrivare al suo pezzo forte: il “gioco delle ottave”. Wes sarà uno dei primi ad utilizzare questa tecnica d’improvvisazione riuscendo a basare interi soli interamente su questo stile. E mentre siete voi a concentrarvi seguendo con l'occhio le sue enormi dita che danzano sulla tastiera della chitarra, lui si concentra a modo suo mostrando il suo indimenticabile sorriso mentre si diverte come un ragazzino ondeggiando ad ogni singola nota seduto sul suo sgabello.

Anche questa sua personale caratteristica diventerà un vero e proprio standard per la chitarra jazz costituendo la base sulla quale artisti del calibro di George Benson, Pat Martino, Lee Ritenour, Pat Metheny e così via, hanno iniziato a sperimentare e a far evolvere questo strumento.

Per una così ben definita pulizia del suono, Wes si avvaleva di un amplificatore valvolare Fender Super Reverb (equipaggiato con 4 coni da 10 pollici) e, negli ultimi anni della sua carriera, di uno Standel Super Custom XV. Il timbro asciutto e “legnoso”, invece, veniva prodotto dalla sua personalissima Gibson L-5CES (da sempre la chitarra pioniera in ambito jazz assieme alla sua “gemella”, la ES-175) che rimase il suo strumento prediletto per tutta la sua carriera.

Preferendo un suono jazz-standard, Wes chiese alla Gibson di produrre un modello personalizzato con un solo pick-up (un ’57 Classic Humbucker) posizionato al manico, eliminando così l’inutile per lui pick-up al ponte (fonte solo di impaccio per la mano destra) e dei relativi due potenziometri del volume e del tono. Altra caratteristica non tecnica: un cuore bianco disegnato sulla cassa della chitarra, proprio sotto il batti-penna.

Nonostante la morte prematura a 45 anni, Montgomery non si è mai astenuto dalle registrazioni in studio, pubblicando più di una ventina di album suddivisi tra la Riverside Records, la Verve e la A&M, più le varie illustri collaborazioni negli album Poll Winners (1960) di Cannonball Adderley, West Coast Blues! (1960) di Harold Land e Work Song (1960) di Nat Adderley.
Partendo da Fingerpickin’ (1958), passando per il capolavoro The Incredible Jazz Guitar (1960) e per il celebre live Smokin’ at The Half Note (1965), Wes Montgomery attraversa un po’ tutte le sfumature del bebop (swing, soul-jazz, blues), prediligendo le formazioni in trio o in quartetto (l’organista Melvin Rhyne e il batterista Jimmy Cobb faranno spesso parte delle sue line-up) fino a sperimentare l’utilizzo dell’orchestra e degli archi in particolare verso gli ultimi anni della sua carriera, accantonando le composizioni d’avanguardia per raggiungere un pubblico più vasto.
Sarà, infatti, uno dei primi artisti jazz ad imbattersi in cover di brani allora famosi in ambito rock e pop: con tanto di accompagnamenti orchestrali, Montgomery crea un modo tutto suo (innovativo per i tempi) di ri-arrangiare dei classici ormai celebri fra le grandi masse di fine anni ’60.

Registra così delle versioni jazz di “Eleanor Rigby”, “A Day in the Life”, “Yesterday” e “I’ll be back” di John Lennon e Paul McCartney, “Scarborough fair” di Simon & Garfunkel, e “rispolvera” parecchi standard. Non mancano brani originali che portano la sua firma e che diventeranno a loro volta degli standard molto noti in ambito jazz: “Four on six”, “West Coast Blues”, “Jingles”, “D-Natural Blues”, Twisted Blues”, e così via.

Oltre ai suoi fratelli Buddy e Monk, per le registrazioni in studio e per i concerti, Wes Montgomery si è sempre avvalso della collaborazione dei migliori musicisti a lui contemporanei: il trombettista Freddie Hubbard, i sassofonisti Pony Pointdexter, Harold Land, i pianisti Tommy Flanagan, Melvin Rhyne, Wynton Kelly, i bassisti Percy Heath, Ron Carter, Paul Chambers, i batteristi Philly Joe Jones, Jimmy Cobb, solo per nominarne alcuni.

Dell’eredità musicale di Wes Montgomery troviamo traccia in quasi tutti i chitarristi jazz oltre che nelle scuole di musica di tutto il mondo. Così come l’evoluzione del jazz non sembra avere confini, il suono e la figura di Wes rimangono scolpiti nella sua discografia della quale riporto di seguito alcuni titoli da me consigliati. Buon ascolto.



di ANTONINO BONOMO




1958 - Fingerpickin'
1959 - The Wes Montgomery Trio
1960 - The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery
1965 - Bumpin'
1965 - Smokin' at The Half Note
1966 - Tequila
1966 - Jimmy and Wes: the dinamic Duo (with Jimmy Smith)
1967 - A Day in The Life