18 settembre 2011

Recensione : J.J. Cale - Troubadour

I'm a gypsy man on a one-night stand. I'm with a gypsy van, just travelling the land…

1976 (da qualche parte nell’Oklahoma)
Mentre la Allman Brothers Band viveva il periodo di maggiore crisi conclusosi con lo scioglimento del gruppo; mentre i Lynyrd Skynyrd accolgono nella loro line-up il chitarrista Steve Gaines intraprendendo l’ultimo di chissà quanti altri anni d’oro della loro carriera, se non fosse stato per l’incidente aereo dell’anno successivo; mentre Leon Russell continuava a sfornare collaborazioni, composizioni e album mentre la sua lunga barba continuava a crescere, e mentre Glenn Campbell, Elvin Bishop e Clyde Stacy facevano del tulsa rock uno dei generi più prolifici tra quelli meno noti al successo commerciale, John Weldon Cale, meglio noto come J.J. Cale, pubblicava il suo quarto album in studio, Troubadour, e continuava senza far troppo chiasso il suo percorso artistico e musicale.



Proprio così, senza far rumore, quasi sottovoce e seguendo imperterrito il suo personalissimo timbro vocale e le sue ballate country, rock e blues. Troubadour è il capolavoro per eccellenza di J.J. Cale, un’ulteriore creazione e conferma della sua arte “minimalista”: la sua voce tenue e giusto un po’ graffiante scorre fra i ritmi smorzati della ritmica, fra le delicate atmosfere di tastiera, organo e fiati e si immerge nello slide delle chitarre country.

J.J. è uno dei pochi a saper incantare con brani che non superano i 3-4 minuti, che non esagera negli arrangiamenti e nei soli, e soprattutto che continua ad essere il punto di riferimento costante per numerosi artisti: Mark Knopfler si ispirerà al suo stile e resterà per sempre devoto alle sue ballad ed Eric Clapton lo considera uno degli artisti che più hanno influenzato la sua carriera, mentre Harry Manx, i Lynyrd Skynyrd e i Kansas riprenderanno alcune sue composizioni.

Come per i suoi precedenti album, J.J. spazia dal country al rock al blues e perfino al jazz, e lo fa alla sua maniera: non prevale mai un singolo strumento, ne tantomeno la sua voce, creando al tempo stesso una piacevole e calma atmosfera sottoforma di piccole degustazioni sonore. Ecco perché non si circonda di superstar per la produzione dei suoi album, ma preferisce dare spazio a vari musicisti quasi sconosciuti, ma di grande effetto per il suo stile.
Durante le registrazioni di Troubadour, si alternano numerosi bassisti, batteristi, chitarristi e pianisti, soltanto alcuni rimangono gli stessi dei suoi precedenti album, ma in generale J.J. conferisce ad ogni singolo brano un sound quasi sempre diverso, talvolta più colorato talvolta più cupo o “elettrico”. Ed è proprio questo il segreto che rende ogni suo album orecchiabile e gradevole, nonostante si mantenga sia lo stile sia la lunghezza delle registrazioni.

Troviamo quindi piccole fiammate elettriche in “Travelin’ light”, “Ride me high”, “I’m a gypsy man” e nell’intramontabile “Cocaine”. Si passa quindi alle splendide ballate country quali “Cherry” e “You got something”, si sfiora il jazz tradizionale con “Hold on” e “You got me so bad” e si raggiunge il blues classico e struggente con “Super blue” e “The woman that got away”. J.J Cale mantiene il suo profilo basso anche nella scelta dei testi, con tematiche che spaziano dal tema dell’amore, felicità, depressione, passando attraverso l’euforia della droga.

Incredibile come la sua semplice voce riesca ad adattarsi su tutti questi diversi tappeti musicali, merito di una devozione artistica tanto gelosamente custodita e mai svenduta in super-collaborazioni o consumata e sparsa per studi televisivi sotto i riflettori.
Il suo carattere riservato sia nella vita privata che in pubblico lo porterà a scegliere pochi selezionati amici con i quali condividere la sua musica (come quando inciderà The Road to Escondido con Eric Clapton nel 2006), così come saranno pochi gli “eletti” che avranno il piacere di suonare con lui su un palcoscenico.



Questa sua riluttanza ad apparire in pubblico non minerà per nulla il suo contributo musicale sia in termini economici che artistici, dal momento che sono innumerevoli i fans che ancora oggi restano devoti alla sua arte minimalista, mentre i più grandi nomi della scena del rock continuano ad omaggiarlo con tributi ad alcune delle sue più celebri composizioni. “After midnight”, “Cocaine” e “Travelin’ light” sono diventate hit numero uno grazie a Clapton e company, mentre “Call me the breeze” e “I got the same old blues” rimangono alcune delle più emozionanti performance live dei Lynyrd Skynyrd.

Ascoltare J.J. Cale significa rilassarsi e gettarsi al tempo stesso nella mischia di quelle sonorità calde, struggenti e “non impegnative” che hanno ritrovato vitalità durante la metà degli anni ’70.
Grazie alla limpidezza delle registrazioni, con Troubadour se non l’avete ancora fatto potrete conoscere J.J. Cale nel suo momento migliore, e potrete immaginarlo seduto su uno sgabello in studio di registrazione o su un palco, con quella sua aria da cowboy mentre suona la chitarra tenendola su un fianco e nel frattempo vi scruta con il suo sguardo sbarazzino.


di ANTONINO BONOMO




Tracklist

J.J. Cale
TROUBADOUR
(Shelter Records, settembre 1976)
  1. Hey baby
  2. Travelin' light
  3. You got something
  4. Ride me high
  5. Hold on
  6. Cocaine
  7. I'm a gypsy man
  8. The woman that got away
  9. Super blue
  10. Let me do it to you
  11. Cherry
  12. You got me so bad

All tracks written by J.J. Cale,
except "I'm a gypsy man" written by Sonny Curtis.


Musicians:

J.J. Cale - vocals, guitar, piano
Charles Dungey - bass (tracks 1, 9)
Tommy Cogbill - bass (tracks 2, 5, 8, 10, 11 ,12)
Joe Osborn - bass (track 3)
Bill Raffensberger - bass (track 7)
Karl Himmel - drums (tracks 1, 2, 4, 9)
Kenny Buttrey - drums (tracks 3, 6, 8, 10)
Buddy Harman - drums (tracks 5, 12)
Jimmy Karstein - drums (track 7)
Kenny Malone - drums (track 11)
Gordon Payne - guitar (track 8)
Chuck Browning - guitar (track 8)
Reggie Young - rhythm guitar (tracks 1, 6, 9)
Harold Bradley - rhythm guitar (track 2)
Bill Boatman - rhythm guitar (track 7)
Lloyd Green - steel guitar (tracks 1, 9)
Buddy Emmons - steel guitar (track 5)
Farrel Morris - percussion (tracks 2, 9, 11)
Audie Ashworth - percussion (track 3)
J.J. Allison - percussion (track 7)
Don Tweedy - arp
Bobby Woods - piano (track 8)
Bill Purcell - piano (track 12)
George Tidwell - trumpet (track 10)
Dennis Goode - trombone (track 10)
Billy Puett - saxophone (track 10)



16 settembre 2011

Lenny Kravitz, Black and White America/Recensione

La potenza del soul e l'anima pop di un artista (im)maturo più che mai. La miscela esplosiva dell'ultimo album di Lenny Kravitz è composta per far sentire la propria voglia d'affrancarsi dai lavori commerciali degli ultimi dieci anni. Black and white America, uscito il 29 agosto in tutto il mondo si presenta come una delle più belle novità del panorama musicale internazionale, di quello che sarà un autunno caldissimo, insieme ai nuovi lavori dei mai tramontati Red Hot Chili Peppers e del vecchio maestro Alice Cooper, con album che porteranno un po' di rock nelle radio e nelle orecchie degli ascoltatori più esigenti.

Riff di chitarra che profumano d'antico e nuove sonorità, servono a Lenny per confezionare un album che non segue un unico filo conduttore ma che esplora le diverse anime della musica, spaziando dalle ballate al soul, dal rock al funk, cosa che del resto riesce molto bene ad un artista che in oltre vent'anni di carriera ha saputo imporre la contaminazione fra generi come una vera e propria carta vincente.

Che l’America sia il Paese dove tutto può succedere, (anche nella musica) non è una novità, così Kravitz già nella prima traccia dell’album, regala una spruzzata di puro black sound, tutto proiettato verso l'abbattimento delle barriere culturali, sociali e artistiche.

Con “Come on get it”, pezzo già pubblicato a febbraio per uno spot promozionale del NBA, si da spazio al rock: assolutamente da inserire tra i migliori dell’intero album. Seguono “In the black” e “Liquid Jesus“, dopo le quali arriva un altro brano da promuovere, “Rock Star city Life“: la quinta traccia spicca tra le altre ed ha quel suono che sicuramente piacerà alle emittenti radiofoniche . Si giunge così al sesto brano, intitolato “Boongie Drop” cantato con Jay Z e DJ Military, una vera novità nello stile di Lenny, ma non può che far piacere sentire degli artisti tanto diversi mettersi in gioco e provare a condurre la musica nera verso nuove direzioni, con semplicità e diciamolo, solamente con il ritmo. Non possiamo decretare tra le migliori tracce dell’album invece “Sunflower“, altro brano nato con la collaborazione del rapper afro-canadese Drake.

Cio' che appare chiaro è l'intenzione da parte di Lenny di stare alla larga dalle influenze del pop e delle melodie ascoltate e ri-ascoltate che lo hanno reso ricco e famoso. Probabilmente, l'intento è quello di volersi togliere la maschera della rockstar appassita, e concentrarsi più sul groove, riuscendo a buttar fuori dalla propria testa arrangiamenti da primo in classifica. La vecchia strada, battuta troppe volte, sembra lontana e il “vintage” è in primo piano solo in pochi momenti. "Black and white America" è un album di “mescolanza” che serve per non far svanire il sogno di un'America davvero libera da discriminazioni ed etichette.

Certo, la storia della musica ci insegna che un album con sedici brani, deve davvero essere un capolavoro per mantenere incollati alle cuffie chi l'ha acquistato ma per evitare l'overdose da soul, l'antidoto è semplice, più ricerca sonora, testi accattivanti e voglia d'arrivare al maggior numero possibile di fan. Insomma, rock, funk, disco, punk e black music, sono necessari altri “tag”?
di Francesco Giacalone