24 maggio 2011

Bob Dylan, i 70 anni del poeta del rock

Una carriera lunga cinquant'anni sulla cresta dell'onda tra politica e rivoluzione.
E il menestrello del rock non si ferma mai.

Robert Allen Zimmerman, per gli amici Bob, in arte Bob Dylan. Il menestrello compie 70 anni. Un artista a tutto tondo che ha cambiato radicalmente la storia della musica, un mito vivente capace di distinguersi da subito come cantautore, scrittore e poeta.

Bob Dylan nasce a Duluth, paesino del Minnesota, nel 1941. Diviene una delle figure più influenti del panorama musicale soprattutto per i suoi testi politici e per farsi portavoce dei giovani del '68, nel pieno fervore dei moti di quegli anni.

Chitarra, tastiera e l'inseparabile armonica alla bocca, Bob Dylan girerà il mondo con quel magico Never Ending Tour che lo ha visto sul palco con i migliori artisti della scena internazionale. Eventi unici: da John Fogerty a Tom Petty, da Eric Clapton a George Harrison e poi ancora U2, Bruce Springsteen, The Rolling Stones, Joni Mitchell, Mark Knopfler. Un elenco infinito di grandi artisti che hanno avuto l'onore di suonare con il menestrello Bob.

Gli album di Bob Dylan hanno quasi sempre ricevuto Grammy Award, Golden Globe e Academy Awards. E' ovviamente incluso nella Rock'nRoll Hall of Fame e nel 1999 il Time lo ha inserito nelle cento persone più influenti del XX secolo. Capolavori come "Blowin'in the wind" e "Master of War" fungono da manifesto per tutte le sue opere.

Tutte le televisioni del mondo stanno trasmettendo speciali dedicati ai suoi lavori, alla sua vita e alle sue opere, ma la BBC ha deciso di fargli un regalo particolare per il suo compleanno ovvero un'intervista inedita che rilasciò nel 1996 dove dichiarò la sua dipendenza dall'eroina e il suo pensiero fisso di suicidarsi. Dopo un concerto, ai microfoni della BBC, dichiarava: "Sono uscito dalla dipendenza da eroina a New York. Sono diventato molto teso, voglio dire molto molto teso e ho smesso. Ero solito spendere 25 dollari al giorno in eroina, e ho smesso" - poi il pensiero sul suicidio . "Sono felice ma felicità è una parola un po' conveniente. Mi sparerei al cervello se le cose andassero male. Mi butterei da una finestra, mi sparerei davvero. Penso alla morte in modo aperto, sai".

Forse questo speciale dedicato dalla BBC è per sottolineare quanto è grande la personalità di Bob Dylan. Nonostante questi pensieri, il menestrello senza tempo compie 70 anni, in barba agli invidiosi e ai portasfiga.

di Gennaro Marco Duello




Dopo i live in Cina, Bob Dylan si prepara a festeggiare i suoi 70 anni con un tour internazionale, che toccherà anche l’Italia con il concerto all’Alcatraz di Milano il 22 Giugno.

In un intervista rilasciata al Corriere della Sera, Francesco De Gregori lo ricorda così: "E' stato importante perchè da lui ho compreso come vanno scritte le canzoni, dal punto di vista dello stile, dell'invenzione, della libertà espressiva. Per me e per qualsiasi musicista è un punto di riferimento imprescindibile. Lo era agli esordi e lo è ora che ha settant'anni".

22 maggio 2011

Dedalus - Un'ametista del prog italiano

L’ametista allontana gli incubi e rafforza la chiaroveggenza e la capacità di sognare.

Una perla rara, uno scrigno semi-sconosciuto, ma totalmente degno della gloria dei giganti. Si tratta dell’omonimo album di debutto dei Dedalus, una delle tante sfuggenti realtà del jazz-rock “made in Italy”.

L’esplosione di questa nuova filosofia musicale nei primi anni ’70 farà del territorio italiano una delle principali sorgenti musicali dalla quale nasceranno decine di formazioni che, chi più e chi meno, saranno determinanti per definire ed allo stesso tempo creare sempre diverse sfaccettature del progressive, il tutto in perfetta sintonia, musicale e cronologica, con il dilagarsi del rock progressivo inglese, francese, olandese e, soltanto in seguito, quello americano.

In mezzo alla sperimentazione e al connubio fra musica elettronica, free jazz, musica etnica ed impegno politico degli Area, passando per il lirismo più ricercato delle Orme, attraversando l’inesauribile varietà di forme della magica PFM, esplorando le influenze del prog inglese, sonorità mediterranee e la tradizione del melodramma italiano attraverso l’opera del Banco del Mutuo Soccorso, le altre numerose formazioni cosiddette “minori”, pur non avendo riscontrato lo stesso successo di pubblico e critica (soprattutto all’estero) ottenuto dai colossi del prog italiano, hanno comunque lasciato il segno in un’epoca dove la libertà musicale ha raggiunto il culmine sotto tutti gli aspetti: libertà totale nell’armonia, nei testi, nella sperimentazione, nella creatività, nell’impegno sociale e politico, nella follia.

L’opera di gruppi quali The Trip, Alphataurus, Quella Vecchia Locanda, Osanna, Il Balletto di Bronzo, Museo Rosenbach, Perigeo, Campo di Marte, Biglietto per l’Inferno, e così via… questi sprazzi di genialità musicale a volte si sono manifestati in un singolo album o in un solo breve periodo, per poi svanire nel nulla, rimanendo, allo stesso tempo, degli esempi unici e rari dell’istrionismo musicale italiano.

Ognuna di queste gemme ha delle caratteristiche proprie e allo stesso tempo comuni alle altre, eccezion fatta per i Dedalus. I quattro membri fondatori provengono dalla provincia di Torino ed il gruppo si forma nel 1973. Dopo i primi tentativi di ottenere degli ingaggi e i conseguenti rifiuti da parte delle case discografiche, il quartetto sbalordisce critica e pubblico durante la terza edizione del Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze, tenutosi a Napoli nel giugno 1973; i Dedalus verranno considerati la migliore rivelazione del festival.

Partirà da qui l’ascesa del gruppo che verrà ingaggiato dall’etichetta milanese Trident (famosa per aver pubblicato lavori discografici di The Trip, Biglietto per l’Inferno, Semiramis, etc.). I Dedalus rimarranno inoltre l’unico gruppo ad aver pubblicato due album per la storica casa discografica “specializzata” nel progressive, dal momento che questa cessò la sua attività nel 1975.

Una delle pochissime realtà italiane che aveva arricchito i fraseggi con esperienze personali di ricerca. Unico esempio di come si possa affrontare la sperimentazione con idee fresche e geniali evitando presuntuosi intellettualismi.”
[tratto da “Il libro bianco del pop in Italia”, Arcana 1976]

Una perfetta sintesi di ciò che il quartetto riesce ad esprimere nei quasi 40 minuti di musica interamente strumentale, dove sulla matrice del jazz costruiscono delle vere e proprie piramidi di sperimentazione, senza però trasformarle in maestosi palazzi farciti di suoni troppo ricercati ed effetti stratosferici. Con i soli quattro strumenti e con una manciata di sonorità differenti, i Dedalus tirano fuori la più complessa arte minimalista musicale del prog italiano.

I protagonisti di questa nuova (per l’epoca) “filosofia della sperimentazione” portano i nomi di Fiorenzo Michele Bonansone (tastiere, violoncello, fisarmonica), Marco Di Castri (chitarra, sax), Furio Di Castri (basso) ed Enrico Grosso (batteria). L’originale miscela jazz-rock contenuta nel primo album potrebbe, ad un primo ascolto, far pensare alle sonorità fusion, ma ciò che avviene già nella prima traccia, “Santiago”, fa capire come i Dedalus vogliano andare di proposito oltre gli schemi dell’epoca, prendendo una direzione totalmente astratta, risentendo fortemente dell’influenza dei pionieri Soft Machine (in particolare nell’utilizzo del violoncello e del sax).

Caratteristica ricorrente in tutti i brani, ma in modo più accentuato nella suite “CT 6”, è la presenza costante del sottofondo musicale che crea un vero e proprio ambiente che non è mai troppo statico, e permette di inserire dei “micro-innesti” sonori che vanno a contaminare l’esecuzione e a renderla via via sempre più concreta.
Ecco quindi che con pochi piccoli interventi solistici di chitarra elettrica, sax, violoncello e suoni psichedelici, il gruppo non si preoccupi nemmeno per un istante di prolungare a dismisura gli assoli, preferendo mantenere un perfetto equilibrio musicale che si mantiene costante in tutti i 5 brani.

L’apparente semplicità delle composizioni riesce a velare, e mai a prevalere, sui fugaci e accattivanti virtuosismi ritmici della batteria di Grosso e del basso onnipresente di Di Castri, mentre l’atmosfera creata dalle tastiere di Bonansone e dagli effetti stralunati della chitarra di Marco Di Castri riescono a proiettare gli ascoltatori in un vero e proprio viaggio sperimentale.

In questo primo album dei Dedalus, oltre alla novità del sound perfettamente in linea con il movimento contro culturale italiano, troviamo sia gli stilemi già collaudati dai jazzisti più famosi (notevoli le influenze della sperimentazione creata dalla prima produzione dei Weather Report), sia quelle sonorità d’avanguardia che caratterizzano i Perigeo, forse l’unico gruppo che più si avvicina allo stile dei Dedalus.

Con il successivo album, Materiale per tre esecutori e nastro magnetico (pubblicato sempre per la Trident nel 1974), i Dedalus cambiano rotta passando all’uso di suoni più avanguardistici con molto uso dell’elettronica, sfornando un album che richiama a tratti la sperimentazione creata dai Pink Floyd con Ummagumma nel 1969.

Nonostante la buona attività live che si contrappone alle scarse vendite degli album, il gruppo si scioglie definitivamente verso la fine degli anni ’70 (il bassista Furio Di Castri lascerà i Dedalus dopo il primo album per avviare una carriera solista come contrabbassista, mentre il batterista Enrico Grosso abbandona nel 1977). Ci sarà una reunion nel 1990 della formazione del secondo album, mentre nel 2000 Michele Bonansone darà vita con nuovi componenti al Bonansone Dedalus Group che si presenta con un nuovo stile post-minimalista.

Una totale libertà espressiva, volutamente raggiunta dai membri del gruppo, che sfocia in un ensemble musicale che non ha pari nel fruttuoso panorama musicale italiano dei primi anni ’70. Una vera e propria rarità e una delle tante “ametiste” del progressive che consiglio agli appassionati del genere.



di ANTONINO BONOMO


Tracklist

DEDALUS
(Trident, 1973)
  1. Santiago
  2. Leda
  3. Conn
  4. CT 6
  5. Brilla

Composizioni e arrangiamenti dei Dedalus.

Line-up:

Fiorenzo Michele Bonansone - pianoforte, Fender piano MK1, EMS synthesizer
Marco Di Castri - chitarra elettrica, sax tenore
Furio Di Castri - basso
Enrico Grosso - batteria e percussioni



7 maggio 2011

AC/DC: Il feeling dell'Hard Rock

L'idea di andare in scena con la divisa da scolaretto gliel'ha data la sorella. Perché da ragazzino lo vedeva tornare da scuola ogni giorno e, senza cambiarsi così come stava, agguantare la sua fedelissima chitarra e scappare a suonare o chiudersi in camera per provare. E così, più o meno dagli anni Settanta, Angus Young tiene alto lo scettro degli Ac/Dc, la più longeva e potente band hard rock, che a breve pubblicherà un nuovo album dal vivo, Live in River Plate. Perché è proprio dal vivo che esplode l'energia della band australiana, nel rapporto col pubblico.

Ci sono poche band che possono dire di aver ottenuto quello che abbiamo ottenuto noi - racconta il cantante Brian Johnson a Repubblica – e non parlo di successo, anche se importante. Parlo del rapporto con la gente, con un pubblico che ci segue e ci ama, che viene ai nostri concerti e ne esce soddisfatto e felice. E parlo dell'amicizia che ci lega. Noi siamo davvero una band, suoniamo insieme, pensiamo insieme, sentiamo insieme tutto quello che facciamo. E questo ci rende diversi dagli altri”.

Mentre Young, che insieme al fratello Malcolm è affiancato oggi da Cliff William e Phil Rudd, e soprattutto dalla voce di Brian Johnson, gli fa eco spiegando in cosa consiste il loro segreto: “È hard rock e basta. Musica diretta, immediata, potente, figlia del rock'n'roll. Quando abbiamo cominciato noi, alla metà degli anni Settanta, il mainstream pop era fatto di canzoni dolci, di chitarre acustiche, di ballate. Sentivamo che mancava qualche cosa, che i ragazzi volevano qualcos'altro, che non c'era solo la voglia di ballare al lume di candela ma anche si saltare per aria, di avere attorno dell'energia. C'era bisogno di un po' di buon hard rock. E lo abbiamo fatto. Del resto non pensa che ce ne sia bisogno ancora oggi? è vero che molte cose sono cambiate, le tecnologie sono diverse, il mondo è diverso, le nuove generazioni sono diverse. Ma i sentimenti, i desideri, sono gli stessi. E l'hard rock non è un genere, ma un feeling".

Più che darsi arie da rocker - basta guardarli, il loro segreto è appunto la capacità di cogliere e sviluppare quel feeling di cui parlano, non certo l'immagine o il 'fisico' da superstar – passati i cinquant'anni gli interessa suonare. E basta: “Noi viviamo per fare musica – conclude Young – certo è ovviamente anche un lavoro, ma non è questa la motivazione principale. Non facciamo dischi perché dobbiamo farli ma quando abbiamo canzoni che ci convincono, quando sentiamo che siamo in grado di emozionare la gente che vuole ascoltarci. E poi se provassimo a fare finta, a non essere noi stessi, non ci riusciremmo nemmeno”.



tratto da www.excite.it

3 maggio 2011

The London Howlin' Wolf Sessions - A short Blues tale

La leggenda del blues e i suoi discepoli”, “il sound moderno del blues”, o ancora “la prima vera super-session del blues inglese”. Questi i titoli del capitolo più riuscito della saga musicale di Howlin’ Wolf, il “bluesman voodoo” dalla voce tagliente e affilata che ha segnato in maniera indelebile la storia del Chicago Blues.

Un raro esempio di commistione musicale: l’originale, scarna, rozza e oscura verve del blues nero americano si unisce all’aurea morbida, ai toni più aggraziati e alle sonorità più frizzanti del blues inglese. Questo è ciò che trasmettono i protagonisti della storica session tenutasi agli Olympic Studios di Londra dal 2 al 7 maggio del 1970.






Chester Arthur Burnett nasce nel Mississippi nel 1910. La musica lo incanta fin da piccolo, quando iniziò ad ascoltare i primi bluesman quali Jimmie Rodgers, Charlie Patton (che diventerà il suo maestro di chitarra). Imparerà, inoltre, a suonare l’armonica grazie ad un altro suo grande maestro e amico: Sonny Boy Williamson II.

Dopo il lavoro nei campi dell’Arkansas e il servizio di leva durante la Seconda Guerra Mondiale, Chester si dedica alla musica mettendo su una sua prima band e iniziando le registrazioni per la Modern e la Chess Records. È proprio in questo periodo che il suo stile blues e il suo soprannome lo rendono famoso in tutto il mondo.

Howlin’ Wolf sconvolge le orecchie degli amanti del blues con la sua voce roca e tagliente che rivoluziona l’essenza del blues di Chicago rivelando il lato più scuro e grezzo sia dei testi che del sound. Il soprannome, che sembra derivi dalle storie di lupi che gli raccontava il nonno, calza a pennello con gli urli e i fraseggi tipici di Wolf che sfoga tutta la sua carica blues e il suo temperamento nei testi degli standard dei suoi predecessori, forgiando al tempo stesso nuovi brani che portano la sua firma e che diventeranno a loro volta dei celebri standard per le generazioni future.

Anomalo cantante blues e anomalo bluesman anche nel suo stile di vita, dal momento che, a differenza di molti altri suoi illustri colleghi che vissero di stenti e diventarono ricchi dopo la loro morte, Howlin’ Wolf godette di buone condizioni economiche e di un successo di tutto rispetto per tutta la sua carriera fino alla morte, nel 1976.

Si sono appena conclusi gli anni ’60, e con loro, oltre ai Beatles, finisce un’epoca storica per la musica: un tramonto che segna, in realtà, un nuovo inizio, una vera e propria trasformazione di tutto quello che il rock, il blues e il jazz hanno impresso nella leggenda. Stanno per nascere il progressive e il fusion, mentre per l’hard rock e il blues si apriranno nuove porte dalle quali usciranno miscugli di vecchio e nuovo, tradizionale e innovativo, “razionale” e “fuori di senno”, e il buon vecchio “lupo del blues” si troverà nel bel mezzo di questa rivoluzione.

Inizia tutto dalla storica Chess Records di Chicago; il giovane produttore Norman Dayron, fresco della produzione di Fathers and Sons di Muddy Waters, sta già pensando al suo altro mito, e non solo: vuole affiancare ad un veterano del blues un gruppo di giovani talenti, nonché star del momento.

È così che durante un concerto al Fillmore West, tramite Mike Bloomfield, Dayron incontra un giovane chitarrista che a soli 25 ha già fatto parte di supergruppi, ha fatto suo il blues e lo ha rivitalizzato facendo impazzire i giovani degli anni ’60 che gli hanno dedicato frasi scritte sui muri. Quando Dayron gli propone di registrare un disco con un “certo” Howlin’ Wolf, Eric Clapton ha già firmato il contratto ed ha già contattato la sezione ritmica dei Rolling Stones.

Tutto fatto. Inizia qui la catena di montaggio che produrrà The London Howlin’ Wolf Sessions, non solo un ennesimo capolavoro del blues, ma anche punto di contatto tra due generazioni musicali, un evento unico e precursore.

Oltre a Charlie Watts e Bill Wyman, Clapton richiede fortemente anche il “sesto Rolling Stone”, il quasi dimenticato Ian Stewart, pianista, nonché uno dei fondatori degli Stones che dovette poi abbandonare il gruppo anche se solo “ufficialmente”, continuando infatti ad essere il road manager della band e ad incidere il piano in molte loro registrazioni. Dayron reclutò anche Hubert Sumlin, chitarrista e storico componente della band di Wolf, e il diciannovenne armonicista prodigio Jeffrey Carp.

Ma in tutto questo, che ne pensa Howlin’ Wolf dell’idea di Dayron?

Si narra che il produttore sudò non poco per riuscire a domare il carattere non proprio malleabile di Burnett. Dayron aveva sentito molte storie sul carattere di Howlin’ Wolf; quando andò a vedere un suo concerto, si aspettava che Wolf portasse in scena un vero e proprio voodoo show, che avrebbe sacrificato un pollo vivo o che sarebbe uscito di testa, che si sarebbe messo ad urlare o che avrebbe combinato la qualunque su quel palco. E invece, Howlin’ non fece niente di tutto ciò. Anzi, come dichiarò lo stesso Dayron, tirò fuori una performance straordinaria, uno spettacolo musicale sostenuto dalla sua voce e dagli ottimi musicisti della sua band.

Dopo il trionfo del primo “esperimento” ottenuto con l’album Fathers and Sons (nel quale riuscì ad amalgamare insieme il blues di Muddy Waters con il rock puro di Mike Bloomfield, Paul Butterfield, Buddy Miles e Duck Dunn), Dayron si convinse a ripetere l’impresa: registrare l’inimitabile voce di uno dei più rivoluzionari bluesman contemporanei con un sottofondo musicale altrettanto fuori dal comune per un classico disco blues.

Il giovane produttore risultò essere così determinato nel suo intento da riuscire a convincere perfino lo stesso protagonista che inizialmente si mostrò reticente al progetto. Ma alla fine, l’idea di rispolverare il sound delle sue stesse composizioni piacque perfino ad un duro come Howlin’ Wolf.

Dayron scandagliò con cura il repertorio di Wolf, cercando di selezionare quei brani che potessero dar pieno risalto alla sua voce e al tempo stesso consentire ai musicisti di esprimere al meglio il sound. E nel frattempo, dovette anche preoccuparsi delle precarie condizioni di salute di Howlin’ a causa della sua dipendenza dall’alcool. E quando si azzardava a consigliare di moderare il suo stile di vita, bastava un’occhiataccia o un ghigno di Wolf per capire che non l’avrebbe mai ascoltato, neanche quando ordinò al servizio dell’hotel dove alloggiava Wolf a Londra di non portargli alcolici in camera.

Dopo il trasferimento dei musicisti da Chicago a Londra, il 2 maggio si mette in moto la produzione dell’album. Come tutti i capolavori che si rispettino, anche questo ha le sue curiosità e i suoi aneddoti, e iniziano proprio il primo giorno, quando si scopre che Charlie Watts e Bill Wyman non erano disponibili a causa di impegni già stabiliti in precedenza. Per non perdere le preziose (e costose) ore già prenotate agli Olympic Studios, Dayron contatta il Beatle Ringo Starr, il quale porta con sé il suo amico bassista Klaus Voorman. Recuperata la sessione ritmica, il gruppo si mette a lavoro registrando i primi brani, ma sorgono subito le prime discordie fra Howlin’ Wolf e Ringo Starr, il quale, essendo un batterista rock, non riesce a dare la giusta consistenza agli shuffle blues. Finirà qui l’avventura di Starr e Voorman che verranno rimpiazzati il giorno successivo da Watts e Wyman.

Un’altra sorpresa del primo giorno riguarderà anche Mr. Slowhand. Appena arrivato in studio, Clapton trova Hubert Sumlin in un angolo mentre accorda la chitarra, al che, intimidito, si rivolge a Dayron chiedendogli “Per che cosa mi hai ingaggiato? Voglio dire, c’è già Hubert, lui è il mio idolo ed è perfetto per Wolf, io non ti servo!”. La risposta di Norman lo lasciò di stucco: “Hubert registrerà solo le parti ritmiche, suonerai tu la chitarra solista.

Un’altra svolta decisiva per le sorti del disco avvenne durante alcune prove prima delle registrazioni vere e proprie. Gli attriti fra il gruppo e Howlin’ Wolf non mancheranno, considerando sia il carattere di quest’ultimo sia il fatto che si trovavano insieme in studio per la prima volta. Ma fu durante la registrazione di “The Red Rooster” che le cose cambiarono; Clapton stava provando un riff con lo slide, quando Wolf gli da un suggerimento.

Per non sbagliare una seconda volta, Clapton passa la chitarra acustica a Wolf e gli chiede di suonare la base in modo da poter dare una guida ai musicisti. L’occhiata di Howlin’ e il suo stupore di fronte ad una richiesta del genere inizialmente fecero gelare lo studio: era come se una recluta si fosse permessa di sfidare il proprio sergente durante un’esercitazione. Ma subito dopo anche gli altri musicisti incitarono il vecchio bluesman a suonare il brano, in modo da poterlo eseguire esattamente come lui lo preferiva. Clapton insistette, e alla fine Wolf accettò, vincendo l’insicurezza e padroneggiando la sua vecchia acustica Sears Silverstone che negli ultimi anni aveva un po’ tralasciato.

Come dichiarerà lo stesso Dayron che assistette a tutta la scena da dietro il vetro in regia, il ghiaccio fu rotto e le registrazioni andarono sempre meglio: “Si era infranta quella ‘barriera’ di timore da parte dei giovani musicisti e di distacco da parte del leader, creando i presupposti giusti per lasciar fluire la musica.

La magia che si creò in studio da quel momento è scolpita nelle tracce dell’album: la band porta il blues oltre le tradizionali 12 bar grazie al ritmo talvolta serrato, talvolta quasi country dell’accademico Charlie Watts e grazie alle linee di basso di Bill Wyman che esce fuori dai canoni degli Stones e si improvvisa un perfetto bassista blues con la giusta dose di innovazione. Ian Stewart non fallisce un colpo con il suo celebre tocco che garantisce l’atmosfera pianista gradevole e longeva dell’album, così come ha contribuito a farlo da esterno negli Stones, al pari della forza sprigionata dal duo Jagger/Richards.

Un debutto da sogno, invece, per il diciannovenne armonicista Jeffrey Carp che si ritrova immerso fra delle vere e proprie leggende. Una di queste, Howlin’ Wolf, non si risparmierà per tutta la durata delle registrazioni, nonostante le sue condizioni di salute non certo sfavillanti, e nonostante il suo fisico venisse messo a dura prova, come quando alla fine della seconda giornata in studio viene colto da un collasso e sviene in bagno. Perfino quando Dayron lo ritrova privo di sensi e lo accompagna fuori verso l’ambulanza Wolf si rifiuta di salirci sopra. Chester se ne infischia e, come sempre, urla al microfono la sua voce, unica e riconoscibile per fino dallo spazio, cantando i lamenti celebri del blues, le storie d’amore fallite, il sogno del bluesman maledetto che si ribella all’oppressione, al razzismo, trovando la “pace” nella bottiglia e nella chitarra. Wolf mette da parte i suoi 60 anni e torna a divertirsi con la musica come fosse un ragazzo, circondato da suoi coetanei.

Uno di questi, in particolare, riuscirà a farlo uscire dal suo “guscio”, strappandogli un commento quale “Quel ragazzo con quella chitarra laggiù è fuori dal comune!”. Eric Clapton sfodera una delle sue migliori performance blues di sempre, lanciando le ultime fiamme prima di sfociare di li a poco nell’estasi più totale con i Derek and The Dominos, per poi crollare nel tunnel della tossicodipendenza ed uscirne soltanto 3 anni più tardi, per tornare di nuovo sul tetto del mondo e portare avanti un lungo percorso musicale che contribuisce ancora oggi a renderlo uno dei pochi immortali della storia della musica contemporanea.

Purtroppo, una piccola nota dolente nell’ensemble musicale intaccherà la performance dell’altra leggenda della chitarra blues, Hubert Sumlin. Quando Dayron porta i nastri a Chicago per il missaggio finale alla Chess, si accorge che l’amplificatore di Sumlin non è stato degno del suo esecutore, rovinando buona parte delle incisioni.

A questo punto, il produttore non può fare altro che salvare il salvabile, sovra-incidendo la parti di chitarra mancanti attraverso le chitarre di Paul Asbell e BeBop Sam, entrambi musicisti di Chicago e turnisti della Chess Records. Per colmare, inoltre, alcune lacune sonore, Dayron inserisce alcune parti di basso eseguite da Phil Upchrch e altri riff di tastiera eseguiti dall’ex-collega di Clapton negli appena scioltisi Blind Faith, Steve Winwood.

Le sovra-incisioni completano quindi l’odissea dell’album che viene pubblicato dalla Chess nell’estate del 1971. Un’ulteriore edizione “ri-visitata” verrà pubblicata 3 anni più tardi, mentre nel 2003 viene rilasciata l’immancabile Deluxe Edition che contiene altre registrazioni scartate dal missaggio finale, nonché il celebre fuori onda fra Howlin’ Wolf ed Eric Clapton durante le prove di “The Red Rooster”.

Gli sforzi del giovane produttore Norman Dayron, uniti al preziosissimo contributo musicale del cast d’eccezione delle registrazioni, alla fine hanno dato alla luce i frutti sperati: l’album ottiene un ottimo successo commerciale ed entra di diritto nella storia del blues, identificandosi come uno degli eventi musicali più riusciti del genere.

Per chiudere questo breve capitolo della storia del blues, leggete queste ultime righe come se fossero le frasi di un narratore esterno che sta per concludere la sua storia fatta di ricordi, di emozioni e, perché no, di leggende:

Wolf non riusciva a credere che uno sbarbatello bianco sarebbe stato il suo produttore. Ma rimase talmente sbalordito dalla determinazione di Norman nell’ottenere il suo rispetto che alla fine mise da parte l’orgoglio e accettò il progetto. E sicuramente, dopo la pubblicazione dell’album e il suo successo, chissà quante volte Wolf avrà ringraziato Dayron per aver creduto in lui…. Neanche una volta, secondo il sottoscritto. Mi piace pensare che Wolf gli sia stato grato, si sia divertito durante le registrazioni con i suoi straordinari giovani discepoli e il giorno dopo la fine delle sessions sia rientrato nel suo turbinio esistenziale scandagliato dai suoi lamenti blues, dalle strida della sua armonica, seduto sulla sua sedia a dondolo con una bottiglia ai suoi piedi e con la mente già immersa in un altro viaggio: un ennesimo travaglio diretto verso il prossimo ‘incrocio’ dove poter incontrare i suoi predecessori ed unirsi con loro alla danza del diavolo.


di ANTONINO BONOMO




Tracklist

Howlin' Wolf
THE LONDON HOWLIN' WOLF SESSIONS
(Chess Records, 1971)
  1. Rockin' daddy (Howlin' Wolf - registrazione del 4/5/1970)
  2. I sin't superstitious (Willie Dixon - registrazione del 2/5/1970)
  3. Sittin' on top of the world (Mississippi Sheiks - registrazione del 6/5/1970)
  4. Worried about my baby (Howlin' Wolf - registrazione del 7/5/1970)
  5. What a woman! (James Oden - registrazione del 7/5/1970)
  6. Poor boy (Howlin' Wolf - registrazione del 4/5/1970)
  7. Built for comfort (Willie Dixon - registrazione del 7/5/1970)
  8. Who's been talking (Howlin' Wolf - registrazione del 7/5/1970)
  9. The red rooster (rehearsal 7/5/1970)
  10. The red rooster (Willie Dixon - registrazione del 7/5/1970)
  11. Do the do (Willie Dixon - registrazione del 6/5/1970)
  12. Highway 49 (Joe Lee Williams - registrazione del 6/5/1970)
  13. Wang dang doodle (Willie Dixon - registrazione del 4/5/1970)

Line-up:

Howlin' Wolf - vocal, harmonica, bottleneck guitar
Eric Clapton - lead guitar
Hubert Sumlin - rhythm guitar
Bill Wyman - bass
Charlie Watts - drums
Ian Stewart - piano
Jeffrey Carp - harmonica on tracks 3, 5, 6, 12, 13
Steve Winwood - piano, organ on tracks 2, 5, 6, 8, 12
Ringo Starr - drums on track 2
Klaus Voormann - bass on track 2
Jordan Sandke - trumpet on tracks 2, 7
Dennis Lansing - tenor saxophone on tracks 2, 7
Joe Miller - baritone saxophone on tracks 2, 7
Lafayette Leake - piano on tracks 3, 4, 10
John Simon - piano on track 8