13 ottobre 2011

Alice Cooper live a Roma/Recensione

Tutti i nonni del mondo raccontano le fiabe ai propri nipoti: fate, principi, maghi e di tanto in tanto qualche strega cattiva. C'è un nonno invece che risponde al nome di Vincent Furnier, sessantatre anni, che per i nipotini che lo seguono per il globo, mette in scena addirittura un vero e proprio teatrino, ma con ghigliottine, mostri, bambole squarciate, fantocci impiccati e sangue a go go. E' vero, lo show di Alice Cooper, è uguale a se stesso ormai da molti anni, e ovviamente siamo ben più sdegnati da quanto succede nella vita reale che da qualche tizio infilzato in giro per il palco. Ma chi può far divertire, riflettere, emozionare e nello stesso tempo suonare ottimo rock n roll? Lui! Uno dei pochi ormai, e non sembra neanche stanco. Mai stanco di interpretare quel ruolo sia di vittima che di carnefice, grazie a quella teatralità che in molti hanno tentato, con alterne fortune, di riproporre.

Lo spettacolo inizia, con soli venti minuti di ritardo, ma l'ora in attesa è carica di emozione. La maggior parte dei fan sotto al palco si tinge la faccia per somigliare ad Alice: dark, punk, metallari, signori panciuti in giacca e scarpe lucide, non c'è differenza. Alice Cooper ha sempre messo tutti d'accordo. E proprio tutti sono pronti ad assistere ad uno dei più stravaganti rock n roll show della loro vita.

Il telo con la megafaccia di Cooper si sfila e inizia una Black Widow mozzafiato e tutto quel fracasso a poco a poco si trasforma in energia, in una libera, sana e divertente armonia fra il protagonista, i musicisti della band e il pubblico. Tutti gli occhi sono puntati sulla splendida Orianthi, giovane chitarrista australiana, dal sound moderno, che ben si adatta ai brani degli anni 80 e 90. Ad accompagnare Alice, in questo nuovo tour c'è anche il vecchio amico Steve Hunter, già stretto collaboratore negli anni settanta e artista di livello internazionale (ha suonato su album storici, come Rock n' Roll animal e Berlin di Lou Reed, solo per citarne un paio). Poi non dimentichiamo la solida base costituita da Tommy Henriksen alla chitarra ritmica, Chuck Garrie al basso e il superbo Glen Sobel alla batteria.


Non c'è dubbio, i brani, tutti ben collegati fra loro, a ripercorre quattro decenni, splendono e risultano freschi, vivi, (quasi) tutti molto attuali. Hunter, dal canto suo, sembra molto a suo agio, spaziando libero in fraseggi e parti soliste profonde e di alta classe; un pò più impacciato invece nei movimenti, dato che è stato (forzatamente) addobbato da metallaro, con tanto di croci e pellame vario. In ogni modo si diverte e fa divertire, con un sound davvero old-style.

Appare chiaro che i brani suonati con più voglia sono quelli degli anni settanta: I'm 18, No more Mr. Nice Guy, School's Out e Elected (brano di chiusura con tanto di maglia della nazionale italiana e bandiera tricolore). Non sono mancate Poison, la splendida Feed my Frankestein e Only women bleed e I'll bite you face off, del nuovo album "Welcome two my nightmare", come non sono mancati i travestimenti e gli attori di contorno nelle scene ormai cult nei concerti di Alice.

Grande show, dunque, al PalAtlantico di Roma, nessuno aveva dubbi, nessuno si aspettava altro che questo: brani rock, ironia, scenografia e teatralità di gran livello e una scarica di adrenalina che pochi al mondo riescono ancora a dare, al modico prezzo di euro 36, 90.


di Francesco Giacalone

9 ottobre 2011

Recensione: John Mayall - Blues from Laurel Canyon

"Il 14 luglio del 1968 i Bluesbrakers si sciolsero in seguito alla mia decisione di intraprendere una carriera solista con un piccolo gruppo spalla. Questo mi portò a scegliere le persone giuste per la nuova formazione.
Dubito ci fosse una scelta migliore della chitarra di Mick Taylor che in quest’album splende come non mai. Ha lavorato con me più a lungo di qualunque altro chitarrista e spero che continui per molto tempo.
Sono molto fiducioso anche della nuova sezione ritmica composta da Stephen Thompson e Colin Allen i quali, dopo un breve periodo di oscurità, sono già tornati alla ribalta.
Quest’album ripercorre le 3 settimane trascorse a Los Angeles dopo lo scioglimento dei Bluesbrakers. Sono veramente soddisfatto di come i miei musicisti hanno trasformato in musica tutte le esperienze e le emozioni che ho trascorso durante questa breve visita alla mia nuova casa."
[John Mayall, 3 Settembre 1968]



Bastano le sole parole di John Mayall per descrivere la sua stessa pietra miliare del blues.
Un viaggio attraverso le sfumature musicali di colui che ha fatto del blues una vera e propria ragione di vita, colui che ha attraversato intere decadi rimanendo sempre fedele alla sua religione senza mai fossilizzarsi, ma cercando di rinvigorirla e trasformarla in modo da poter essere tramandata a tutte le generazioni future.

L’immensa produzione musicale di John Mayall scorre sotto il segno del blues, ma abbraccia anche il rock e il jazz oltre ai numerosi talenti venuti allo scoperto grazie a lui: Jack Bruce, Mick Taylor, Peter Green, John McVie, Eric Clapton, Mick Fleetwood, Aynsley Dunbar, Jon Hiseman, Dick Heckstall-Smith, Buddy Whittington e così via.
Ciò che il nome di Miles Davis significa per il jazz, quello di John Mayall si identifica come uno dei più grandi innovatori e cultori del blues di tutti i tempi, in particolare per la scena inglese. Proprio come Miles, John è andato oltre le forme tradizionali del blues lanciandosi nella ricerca di nuove sfumature e, al tempo stesso, facendo leva su svariati talentuosi musicisti. L’impronta indelebile lasciata nella storia del blues riguarderà non soltanto i suoi album, ma anche le produzioni a suo nome e il suo contributo di inestimabile valore nei confronti del revival del blues americano in Europa, attraverso l’organizzazione di svariate sedute di registrazione che ebbero come protagonisti i quasi sconosciuti bluesman americani.

Il viaggio di John Mayall riportato in Blues from Laurel Canyon inizia con il rombo del motore di un aeroplano che lo trasporta nell’area di Los Angeles, un vero e proprio fiume in piena soprattutto nella seconda metà degli anni ’60. È qui che si ritrovano tutti i grandi, coloro che daranno vita a nuove filosofie musicali che di lì a poco cambieranno il volto delle nuove generazioni americane e non solo…
L’avventura americana per Mayall inizia con “Vacation”, un’elettrizzante introduzione scandita da un’impeccabile successione di accordi e dall’immortale solo firmato dal giovanissimo Mick Taylor: un tornado, un fulmine a ciel sereno, un’introduzione da premio oscar che non lascerebbe per nulla presagire ad un disco blues. Subito dopo, l’atterraggio: in “Walking on sunset” e “Laurel Canyon Home”, John descrive tutta la magia trasmessa da questi nuovi luoghi (“all the pretty women”, “everything is like a friend”) e sembra quasi non esserci fine alla bellezza del posto.
Dopodiché, Mayall passa in rassegna gli incontri avvenuti con i musicisti del luogo: in “2401”, esprime tutta la sua ammirazione per “l’eroe” Frank Zappa, colui che cerca di “cambiare il sistema” attraverso la sua musica (“there’s a hero living at 2401, got his Mothers working while you’re having fun”), mentre in “The bear” descrive il suo soggiorno insieme al cantante Bob Hite (che verrà ribattezzato proprio con questo soprannome) e ai Canned Heat nella “casa del blues”, nella quale si ascoltava e si faceva musica giorno e notte.

Tutte le avventure di Mayall vengono narrate sopra uno splendido sottofondo musicale che spazia attraverso il blues, atmosfere esotiche scandite dall’uso dei tamburi (“Medicine Man”), fino a raggiungere il jazz-swing con “Miss James”, dove Mayall mette in mostra tutta la sua versatilità passando dall’organo all’armonica e alla chitarra. Trovano spazio anche le atmosfere “solitarie” come in “First time alone” che viene scandita dal timbro vocale di John, riconoscibile fra mille. La chitarra che a tratti colora il brano è quella di Peter Green, colui che si unì nuovamente ai Bluesbrakers quando Eric Clapton lasciò la band di John Mayall nel 1966.

Un’incredibile e altrettanto atipica traccia di chiusura, “Fly tomorrow”, chiude in bellezza il capolavoro di John Mayall: il quartetto “cuce” con eccellente maestria due brani insieme attraverso un crescendo che passa da un’atmosfera piatta e rilassata ad un turbinio di profonde linee di basso e ritmo incalzante di batteria sopra i quali Mick Taylor punzecchia con la sua Les Paul, mentre Mayall lancia delle vere e proprie sassate sonore attraverso il suo Hammond.
E come se non bastasse, gli effetti psichedelici dell’organo condurranno poi alla chiusura dell’album con un tappeto di percussioni e un fantastico effetto di chitarra alla “spaghetti western” che portano a termine il viaggio di John Mayall.
Blues from Laurel Canyon venne registrato tra il 26 ed il 28 agosto del 1968 negli studi della casa discografica Decca, a Londra. Poco meno di un anno più tardi, lo stesso John Mayall darà la propria benedizione al giovane Mick Taylor per il suo ingaggio nei Rolling Stones, mentre Stephen Thompson e Colin Allen si uniranno agli Stone the Crows. Da parte sua, John inizierà un nuovo capitolo della sua lunghissima carriera, continuando a sperimentare diverse formazioni.



Sono molti i concept album nella storia della musica, ma non nel blues: forse non è il genere adatto per descrivere una vera e propria storia. D’altronde, ogni singolo blues rappresenta una piccola storia a se stante, che sia il mal di vivere, la sofferenza per un amore perduto, il patto con il diavolo, l’ossessione per la bottiglia, la follia di ogni giorno… tutto questo era vero fino a quando John Mayall non creò Blues from Laurel Canyon, attraverso il quale raccontò un viaggio vero, il suo, e lo fece unendo fra di loro (senza pause) tutti quegli episodi che lo segnarono profondamente. Ogni singola avventura diversa dall’altra, diverso colore, diversa tonalità, diversa struttura, diversa storia e diversi protagonisti.

Ora è il vostro turno: tocca a voi diventare protagonisti di questa musica e di queste parole. Buon ascolto.


di ANTONINO BONOMO


Tracklist

John Mayall
BLUES FROM LAUREL CANYON
(Decca Records, novembre 1968)
  1. Vacation E
  2. Walking on sunset Ab
  3. Laurel Canyon Home C
  4. 2401 A
  5. Ready to ride E
  6. Medicine man G
  7. Somebody's acting like a child Db
  8. The bear Bb
  9. Miss James F
  10. First time alone B
  11. Long gone midnight Eb
  12. Fly tomorrow D

All tracks written by John Mayall.

Line-up:

John Mayall - guitar, harmonica, keyboards, vocals
Mick Taylor - guitar, hawaiian guitar
Colin Allen - drums, tabla
Stephen Thompson - bass
Peter Green- guitar on "First time alone"