27 novembre 2009

Palermo - Torna l'Orchestra Jazz Siciliana

Sarà la prestigiosa Orchestra Jazz Siciliana a celebrare il ritorno al Ridotto dello Spasimo, consueta sede della Fondazione The Brass Group, abbandonata solo per qualche settimana a causa dei lavori effettuati da parte dell’amministrazione comunale. In programma un doppio concerto, venerdì 27 novembre alle 21.30, e replica sabato 28 alla stessa ora.
Il grande ensemble, fiore all’occhiello della Fondazione “The Brass Group”, sarà diretto dal maestro Antonino Pedone.
Si ritorna dunque nella storica sede dello Spasimo e lo si fa alla grande, non solo con produzioni cameristiche ma anche con le produzioni orchestrali.

La formazione dell’Orchestra Jazz Siciliana, che rappresenta in Italia la prima e unica orchestra permanente di jazz a partecipazione pubblica, sarà la seguente:

alle trombe: Domenico Riina, Silvestro Barbara, Fabio Riina, Pietro Pedone, Giovanni Calderone, Vito Giordano
ai tromboni: Salvatore Pizzurro, Salvatore Pizzo, Salvatore Nania, Valerio Barrale
ai sassofoni: Orazio Maugeri, Gaetano Agrò, Francesco Marchese, Gaspare Palazzolo, Giampiero Risico.
per la sezione ritmica: Sergio Cammalleri (percussioni), Sergio Munafò (chitarra), Riccardo Randisi (pianoforte), Giuseppe Costa (contrabbasso), Giampaolo Terranova (batteria).

Entrambi i concerti vedranno l’Orchestra impegnata per la sezione “Guest” del cartellone della stagione concertistica del Brass. Esso prevede un programma brillante intitolato “Mambop”, acronimo di “mambo” e “bebop”.

Fondata da Ignazio Garsia nei primi anni ‘70 con il nome di Brass Group Big Band, l'Orchestra Jazz Siciliana ha svolto un' intensa e continuativa attività concertistica sotto la guida di alcuni dei più prestigiosi direttori d’orchestra dei mondo.

Nel 1990 l’O.J.S. è stata il cardine della «Rassegna Internazionale della Soul Music» di Palermo e nel 1991 ha eseguito, in prima europea, «Epitaph» di Charles Mingus, sotto la direzione di Gunther Schuller. Mentre, per l’esecuzione di pagine del repertorio contemporaneo, l’O.J.S ha partecipato nel ‘94 alla rassegna Suoni del Novecento promossa dall’E. A. Teatro Massimo di Palermo e nello stesso anno, diretto da Clark Terry, l’ensemble ha inaugurato la Stagione Concertistica Estiva con un concerto dedicato a Duke Ellington nel ventennale della scomparsa.

Nel febbraio 1996, su invito della Società Italiana per lo Studio della Musica Afroamericana, l’OJS ha inaugurato la rassegna “La Musica Colta Afroamericana”, con la prima esecuzione mondiale dal vivo della trascrizione della suite «Porgy and Bess» di George Gershwin/Gil Evans, nuovamente diretta da Gunther Schuller, solista Paolo Fresu.
Giuseppe Costa, Vito Giordano, Antonino Pedone, Pietro Pedone, Fabio Riina, Domenico Riina, Salvatore Pizzo e Salvatore Pizzurro da oltre 20 anni hanno garantito un sound orchestrale caratterizzato da una propria e riconoscibile cifra sonora. Ad essi si sono aggiunti, in un ampio arco di tempo, Gaetano Agrò, Silvio Barbara, Valerio Barrale, Salvatore Bonafede, Francesco Buzzurro, Sergio Cammalleri, Rita Collura, Stefano D’Anna, Gianni Gebbia, Massimo Greco, Pino Greco, Mimmo La Mantia, Francesco Marchese, Orazio Maugeri, Sergio Munafò, Salvatore Nania, Riccardo Randisi, Mauro Schiavone, Gaetano Tucci, Giuseppe Urso, Giampaolo Terranova…


dall'Ufficio Stampa del Brass Group (www.thebrassgroup.it)

25 novembre 2009

Monza, giovedì in jazz al Soho Lounge con un omaggio a Chet Baker

Continua l’appuntamento del giovedì sera dedicato agli appassionati di musica jazz al Soho Lounge, il locale monzese di via Carnia che con la rassegna “Soho’n’jazz” porta sul proprio palco i principali esponenti della musica nera italiana. Giovedì 26 novembre sarà la volta del trio Riccardo Fioravanti (basso elettrico), Lara Iacovini (voce) e Mario Rusca (pianoforte) e del loro tributo a Chet Baker, indimenticato sassofonista statunitense e punto di riferimento per ogni cultore del genere.

La serata musicale segue la pubblicazione del disco “In the mood of Chet” a cura di Riccardo Fioravanti e Lara Iacovini, con cui i due musicisti hanno voluto rendere omaggio a Baker e al suo originale mix di originalità e tradizione. Per l’occasione, al trio si è aggiunto il pianista Mario Rusca, che ha avuto modo di esibirsi proprio con Baker in più di un’occasione. Durante il concerto, che avrà inizio alle ore 22.00, il trio proporrà una selezione dei più famosi standard jazz come Autumn Leaves, Over the Rainbow e But for me, oltre che due inediti : Joyfull Season of life e I know.

Così Paolo Fresu scrive presentando il disco omaggio a Baker: “E’ difficile pensare al moderno al giorno d’oggi, ma se per moderno si intende un passo in avanti rispetto alla tradizione, “In the mood of Chet” è un valido esempio di continuità storica e stilistica all’interno delle molteplici vie del jazz. Musica attuale capace di raccontare il presente, mai dimentica del passato e di coloro che lo hanno costruito porgendolo all’oggi”.

Ogni informazione sulla serata è reperibile sul sito www.soholounge.com


di Roberta Crespi (da mbnews.it)


24 novembre 2009

Recensione: John Scofield - That's What I say

La musica di Ray Charles è stata una delle mie fonti di ispirazione quando iniziai a suonare la chitarra. Lui era un gigante della musica soul, ma era anche un musicista jazz. Per me rimarrà sempre il più alto esempio di onesta espressività musicale. [John Scofield]

Cosa succede quando in uno studio di registrazione si riuniscono musicisti e produttori di grande talento ed esperienza, supportati da uno dei più grandi chitarristi jazz di sempre come John Scofield, a sua volta guidato dall’ispirazione e dall’eredità musicale di una delle figure più importanti e innovatrici della musica del ‘900 come Ray Charles? La risposta è scolpita nei 13 entusiasmanti brani dell’album That’s What I Say, il personalissimo tributo di John Scofield alla “sensazione cieca”.

Ray Charles Robinson ha lasciato un segno indelebile nell’evoluzione della musica soul, passando attraverso il rhythm & blues fino ad arrivare a “profanare” il gospel (musica sacra che si è fatta carica di importanti contenuti soprattutto durante la prima metà del ‘900) per dar vita alla cosiddetta “musica del diavolo”, che ebbe già dei precedenti d’eccezione con il delta blues, in particolare con un altro immortale artista “maladetto” come Robert Johnson.

Nella carriera del “genio” Ray non mancarono neanche le parentesi dedicate al country, ma sarà proprio la componente jazz ad essere quasi sempre presente durante l’evoluzione del suo sound, e ciò soprattutto grazie al suo altalenante stile pianistico e alla costante presenza dei fiati nelle sue formazioni.

Non esistono aggettivi o superlativi adatti per identificare il genio di John Scofield: ha attraversato diverse generazioni musicali e collaborato con tutti i più grandi artisti internazionali, traendo spunto per la creazione di quello che possiamo chiamare a tutti gli effetti il “Sound Scofield”.
Dopo aver frequentato la Berklee College of Music di Boston, inizia giovanissimo a suonare puro jazz verso la fine degli anni ’60, entrando nell’entourage di artisti monumentali quali Gary Burton, Gerry Mulligan e perfino del grande Chet Baker, anche se solo per qualche concerto.

Entrerà a far parte dei gruppi di Billy Cobham, di Charles Mingus e di Dennis Chambers per poi unirsi alla band del grande Miles Davis, con il quale collaborerà sia in studio sia in tour dal 1982 al 1985, esperienza di grandissima importanza soprattutto per la sua maturazione musicale che lo dirigerà sempre più verso l’improvvisazione e il funky. Inizierà poi la sua carriera da solista, destreggiandosi abilmente nel post-bop, funk-jazz e rhythm & blues. Nei suoi album non mancheranno le componenti del jazz tradizionale e dello swing, facendo conoscere in tutto il mondo il suo personalissimo stile jazzistico caratterizzato da una leggera (ma trascinante) distorsione e da un continuo alternarsi fra note basse e acute durante le improvvisazioni.

Negli anni ’90 collaborerà con un altro gigante della chitarra jazz come Pat Metheny, con il quale inciderà uno straordinario album, I Can See Your House From Here, che grazie anche al successivo tour consacrerà i due eccezionali chitarristi colonne portanti del jazz moderno. Altra incredibile esperienza musicale sarà la collaborazione con il trio Medeski, Martin & Wood, molto apprezzati da Scofield per il loro “swampy groove” caratterizzato da un ritmo funk-jazz rallentato e sincopato, in perfetta sintonia con il suo stile chitarristico.

Nel 2004 Ray Charles scompare. Pochi mesi dopo la sua morte uscirà nelle sale di tutto il mondo il film Ray diretto da Taylor Hackford e interpretato dal bravissimo Jamie Foxx, al quale verrà conferito il premio Oscar come miglior attore protagonista per il ruolo di Ray Charles. Non mancheranno altri tributi in onore del grande pianista-cantante; tra questi, quello di John Scofield sarà uno dei più apprezzati. Come ha dichiarato lo stesso chitarrista attraverso il suo sito, l’atmosfera di grande tristezza che seguirà la morte di Charles lo spingerà ad accettare il progetto del tributo per omaggiare una delle sue figure più amate nel campo musicale.

Devo ammettere che non sono sempre d’accordo con progetti di questi tipo. Alcuni funzionano davvero bene, altri purtroppo no. Ma non appena Ron Goldstein (presidente della Verve Records) mi ha suggerito di registrare un album-tributo a Ray Charles, ho colto l’occasione al volo. [John Scofield]

Scofield inoltre potrà finalmente realizzare una delle sue più grandi ambizioni, ovvero poter registrare con delle voci soul e immergersi a capofitto nel complicato arrangiamento dei brani di Charles. Per far questo, nel dicembre del 2004 si reca negli Avatar Studios di New York con musicisti di grandissimo talento, che gli consentiranno di realizzare superbamente il suo sogno.

Spicca su tutti il nome di Steve Jordan, batterista, compositore e produttore discografico dalle eccellenti capacità; sarà proprio lui a condividere la passione per la musica di Ray Charles con Scofield, producendo l’intero album.
Debuttando giovanissimo nella band di Stevie Wonder, Jordan raggiunse la fama internazionale quando si unì al John Mayer Trio, formazione che gli permise inoltre di entrare nelle grazie di Eric Clapton, che lo sceglierà come batterista per il suo tour mondiale del 2006-2007.

Per riprodurre il raffinato suono di Ray Charles, Scofield recluta Larry Goldings all’organo Hammond; pianista jazz di grande esperienza, Goldings ha più volte collaborato con Scofield nei suoi precedenti lavori solisti. Sarà proprio il pianista a fare il nome di Willie Weeks. Quest’ultimo vanta un lussuoso portfolio di collaborazioni: David Bowie, Gregg Allman, Robert Cray, Aretha Franklin, Billy Joel, Rod Stewart, The Rolling Stones, Eric Clapton, e così via. Soltanto le sue straordinarie capacità di bassista soul ed R&B possono eguagliare la sua esperienza.


Con questo quartetto “base”, Scofield passerà in rassegna alcuni dei classici più belli e di maggior successo di Ray Charles, aggiungendo l’inestimabile contributo di alcuni ospiti illustri: il leggendario pianista-cantante Malcolm John Rebennack, in arte Dr. John; il chitarrista bottleneck Warren Haynes, che (a soli vent’anni) entrò a far parte della Allman Brothers Band agli inizi degli anni ’80; “l’anziana” cantante gospel Mavis Staples; la giovane scoperta della chitarra blues e rock che risponde al nome di John Mayer; il leggendario percussionista dei Weather Report, Manolo Badrena…

Ma il posto d’onore va senza dubbio al leggendario sassofonista David “Fathead” Newman: scomparso nel gennaio del 2009, per oltre trent’anni condivise il palco con Ray Charles, entrando a far parte della sua band nel lontano 1954.

Possiamo soltanto immaginare le incredibili emozioni che i brani “What’d I say”, “Hit the road Jack” e “I got a woman” scatenarono nella testa di Newman, durante le registrazioni a New York con John Scofield, suonando il sax e ripercorrendo allo stesso tempo gli indimenticabili momenti trascorsi con il suo leggendario band leader.

Bastano soltanto questi nomi a giustificare l’eccezionale carica emotiva che ogni brano dell’album riesce a trasmettere. Si passa dalle atmosfere quasi “orchestrali” delle splendide “What’d I say” e “I got a woman”, alle straordinarie esecuzioni funk-jazz di “Busted”, “Sticks and stones” e “Hit the road Jack”, dove John Scofield sfodera il meglio del suo repertorio, con armonie ed improvvisazioni da capogiro. Di grande intensità anche la splendida “I can’t stop loving you”, dove, attraverso la sua voce, l’incredibile Mavis Staples rievoca le splendide armonie country e soul tanto amate dal grande Ray Charles, il quale lasciò sbalorditi i suoi produttori discografici quando riuscì a conquistare nuovamente il grande pubblico anche con il suo nuovo sound supportato dall’orchestra.

Viene dato spazio perfino al ritmo tipico della ballad con l’ipnotica “You don’t know me”, dove Steve Jordan alle spazzole scandisce la ritmica mentre Scofield, Goldings e Weeks tessono il tappeto musicale sul quale si inserisce la splendida voce di Aaron Neville.
Da incorniciare l’accattivante “I don’t need no doctor”, dove assistiamo ad uno splendido “duello” chitarristico fra John Scofield (il maestro) e John Mayer (l’allievo); quest’ultimo mette in mostra le sue abilità di straordinario cantante e chitarrista, destreggiandosi sia all’elettrica che all’acustica.

È una di quelle canzoni che imparai a suonare durante la scuola, uno di quegli standard suonato un po’ da tutti. Arrivai in studio con una bozza della struttura, per poi adattarla allo stile blues ed estenderla fino ad un groove diverso, più intenso. Appena iniziammo a registrare, sia io che John Mayer sapevamo già esattamente cosa fare e la registrammo in una sola take. Fu un momento davvero speciale.” [John Scofield]

Non potevano mancare le “finezze” soliste del leader, che lasciano l’acquolina in bocca non appena si passa al brano successivo. È il caso della breve e pensierosa “Cryin’ time”, una sorta di apertura per la successiva “I can’t stop loving you”. Semplice ma di grande effetto la versione di “Georgia on my mind” che chiude l’album, con il “mago” Scofield abilissimo con la chitarra acustica nel renderla sotto forma di ballad classica. Curiosa e bizzarra l’aggiunzione della traccia “nascosta”, legata a “Georgia”, dove si può ammirare il quartetto Scofield, Goldings, Jordan, Weeks improvvisare su uno dei temi ricorrenti nell’album.

Una volta terminata la fase degli arrangiamenti, la facilità con cui vennero effettuate le registrazioni fu sorprendente, come ha dichiarato lo stesso Scofield. “L’ottimo risultato è stato conseguito grazie anche alla grande affinità fra i musicisti che si alternarono in studio; l’atmosfera quasi magica di Manhattan durante la settimana prima di Natale ha fatto il resto.”

L’album verrà pubblicato nel giugno del 2005, in occasione del primo anniversario della morte di Ray Charles, e risulterà essere uno dei migliori lavori di John Scofield, come prodotto commerciale, ma soprattutto musicale: un ulteriore dimostrazione della continua voglia da parte del chitarrista di sperimentare e di guardare oltre, cercando sempre nuove strade attraverso le quali riuscire sempre a cogliere e a soddisfare la dedizione degli appassionati dell’ottima musica, e non solo del jazz.

Per i cultori della musica di Ray Charles, esperti e principianti, un gran bel disco da riascoltare ogni qual volta si voglia far finta che il grande Ray sia ancora in giro per il mondo seduto al piano, cantando, ridendo e "dondolando".


di ANTONINO BONOMO


Tracklist

John Scofield
THAT'S WHAT I SAY
(Verve Records, giugno 2005)
  1. Busted (Harlan Howard)
  2. What'd I Say (Ray Charles)
  3. Sticks and Stones (Henry Glover, Titus Turner)
  4. I Don't Need No Doctor (Nickolas Ashford, Valerie Simpson)
  5. Cryin' Time (Buck Owens)
  6. I Can't Stop Loving You (Don Gibson)
  7. Hit the Road Jack (Percy Mayfield)
  8. Talkin' Bout You/I Got a Woman (Ray Charles/Ray Charles, Renald Richard)
  9. Unchain My Heart-part 1 (Teddy Powell, Robert Sharp Jr.)
  10. Let's Go Get Stoned (Josephine Armstead, Nickolas Ashford, Valerie Simpson)
  11. Night Time is the Right Time (Lew Herman)
  12. You Don't Know Me (Eddie Arnold, Cindy Walker)
  13. Georgia On My Mind (Hoagy Carmichael, Stuart Gorrell)


Line-up:

John Scofield - electric & acoustic guitars
Larry Goldings - piano, Hammond B3 organ, Wurlitzer, vibes
Willie Weeks - bass, Ampeg baby bass
Steve Jordan - drums, cocktail drums, tambourine, background vocals

with special guests:

Dr. John - vocals, piano (track 2, 8)
Aaron Neville - vocals (track 2, 12)
Lisa Fischer - vocals (track 2, 6, 11)
Mavis Staples - vocals (track 2, 6)
Vaneese Thomas - background vocals (track 2, 6, 11)
Meegan Voss - background vocals (track 2)
Manolo Badrena - percussion, timbales, tambourine (track 2, 8)
Warren Haynes - vocals, bottleneck guitar (track 2, 11)
John Mayer - vocals, electric & acoustic guitar (track 2, 4)
David "Fathead" Newman - tenor saxophone (track 2, 7, 8)
Alex Foster - tenor saxophone (track 2, 7, 8, 10)
Earl Gardner - trumpet (track 2, 7, 8, 10)
Howard Johnson - baritone saxophone (track 2, 7, 8, 10, 11)
Keith O'Quinn - trombone (track 2, 7, 8, 10)


23 novembre 2009

Recensione: Jet - Shaka rock

Dal titolo Shaka Rock ci sia spettava proprio qualcosa di shakerato. Il nuovo disco degli australiani Jet (quelli di Are you gonna be my girl) non arriva dritto al cervello come un bicchierino di wiskey liscio ma va assaporato a poco a poco come un buon cocktail.

Le dodici tracce del brano, molto eterogenee, regalano ai fan della band australiana qualcosa in più rispetto al rock duro e alle ballate dei lavori precedenti.

Un album con belle armonie vocali e dei brani ben arrangiati che ricordano i migliori Beatles e Beach Boys. Le chitarre distorte e gli assolo laceranti non mancano ma a dire il vero i Jet con questo disco puntano ad un sound più moderno. Andando a creare riff diversi rispetto al passato e più lontani dal rock blues, la band dei fratelli Cester si avvicina ad un sound "europeo" probabilmente per liberarsi dal marchio di fabbrica very hard delle band australiane come i vecchi Ac/Dc o gli attualissimi Airbourne.

Di certo le canzoni di Shaka Rock circoleranno nei prossimi mesi nelle radio di tutto il mondo e avranno un buon successo. Intanto il singolo She's a Genius (con la forza di un bel videoclip) ha già sfondato.


di Francesco Giacalone
Tracklist:
  1. K.I.A (Killed in Action)
  2. Beat on Repeat
  3. She's a Genius 2:58
  4. Black Hearts (On Fire)
  5. Seventeen
  6. La Di Da
  7. Goodbye Hollywood
  8. Walk
  9. Times Like This
  10. Let Me Out
  11. Start the Show
  12. She Holds a Grudge
Ecco i due video dei singoli estratti dall'album (She's a genius e K.I.A)


17 novembre 2009

Recensione: James Brown - Live at The Apollo

La personalità, il suono, il feeling, lo spettacolo di James Brown: godimento allo stato puro. Dopo quasi mezzo secolo dalla pubblicazione dell’album, il Live at the Apollo del leggendario “padrino” del soul rimane ancora uno dei migliori album di tutti i tempi.

Ancora ben lontano dal successo planetario conseguito in 50 anni di straordinaria e monumentale carriera, James Brown si farà conoscere al pubblico internazionale verso la seconda metà degli anni ’50, fino a dominare le classifiche del settore rhythm & blues negli anni ’60. Sarà proprio il leggendario concerto a contribuire all’esplosione del travolgente cantante-ballerino dalla voce possente e inconfondibile.

Brown trascorse un’infanzia difficile, guadagnandosi da vivere con diversi mestieri di fortuna, arrestato per reati minori, trasferitosi più volte con la famiglia e passando da una miseria all’altra. Dopo aver abbandonato sia il pugilato che il baseball, si dedica a tempo pieno alla musica.
Il gospel e lo swing faranno parte della sua colonna sonora quotidiana, fino a quando verrà ingaggiato dalla celebre casa discografica King Records, la quale lo condurrà al successo assieme alla sua band, The Flames.

Il successo arriva nel 1956 con il singolo “Please, Please, Please” che porterà James Brown in vetta alle classifiche. Ma è durante gli anni ’60 che Brown raggiunge il grande successo, grazie alle sue incredibili interpretazioni in brani quali “I got you”, “Cold sweat”, “It’s a man’s world”, “I got the feeling” e così via, dove gli appassionati del rhythm & blues e del gospel possono apprezzare l’incredibile novità del possente sound funky e di quei taglienti acuti che renderanno celebre la sua voce.

Il 24 ottobre 1962, James Brown approda al celebre Apollo Theater di New York, a Manhattan, nel cuore di Harlem. L’Apollo divenne un centro musicale durante le due guerre mondiali, per aprirsi definitivamente al panorama degli artisti afroamericani nel 1934 grazie allo show “Jazz à la Carte”. Attraversando la storia delle repressioni razziali, il teatro divenne un vero e proprio simbolo della lotta per i diritti dei neri in un contesto, il quartiere “nero” di Harlem, che ancora oggi conserva gelosamente il proprio mito.

L’Apollo Theater è ancora oggi il locale più rinomato e più famoso al mondo per quanto riguarda le esibizioni degli artisti afroamericani. È stato anche il trampolino di lancio per molti celebri artisti, tra i quali Gladys Knight, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, The Jackson 5, Michael Jackson, Tim Moore. E lo sarà anche per James Brown, che produrrà a spese proprie la registrazione di uno dei concerti più memorabili della storia della musica, soprattutto di quella afroamericana.

L’allora 29enne padrino del soul darà vita ad uno show esilarante contrassegnato dalla sua incredibile vena artistica che lo renderanno uno dei più famosi showman e sex symbol della sua generazione. Supportato dalla sua splendida band e dal terzetto corale dei Famous Flames, James Brown sfodera tutto il suo repertorio, scandendo la foga e gli applausi della folla a ritmo di danza. Il pubblico letteralmente impazzisce gridando a squarciagola ogni qual volta Brown si da la carica con le sue tipiche grida che danno il via alle performance, una più trascinante dell’altra. Un’autentica risposta “nera” al rombo della “bianca” beatlemania che di li a poco inizierà la sua ascesa dall’altro capo del mondo.

L’incredibile successo commerciale dell’album, pubblicato nel maggio 1963, sorprende perfino la King Records, inizialmente contraria alla pubblicazione della registrazione. Per le strade di Harlem, i giovani si fanno fotografare mentre danzano con una copia dell’LP del concerto all’Apollo tra le mani.
Brown si esibirà diverse altre volte nel celebre teatro; da queste esibizioni verranno ricavate altre tre registrazioni, pubblicate nel 1968, nel 1971 e nel 1995. Ma nessun altro album live o studio di Brown eguaglierà il numero di vendite del primo concerto all’Apollo, aspetto che ne accresce la popolarità e l’importanza storica riguardo soprattutto i messaggi sui temi sociali e esistenziali (come l'importanza dell'istruzione e la necessità di migliorare la propria condizione individuale e sociale) di cui James Brown divenne portavoce proprio verso il pubblico nero.

Dopo la sua più celebre performance giovanile, Brown girerà il mondo portando la sua musica e il suo carisma fino al cuore della gente. Negli anni ’70 e ’80 riesce a distinguersi e a rimanere sempre sulla cresta dell’onda perfino di fronte al boom del pop, del rock e della disco, accrescendo la sua popolarità anche grazie alle partecipazioni cinematografiche nei film “The Blues Brothers” di John Landis e “Rocky IV” di Sylvester Stallone.

Sempre attivo nella sua attività concertistica e nelle battaglie per i diritti umani, James Brown continuerà la sua attività anche durante la malattia causata da un tumore che lo colpirà nel 2006. Determinato a combattere la sua battaglia, dovette arrendersi nel dicembre dello stesso anno, quando a causa degli incessanti dolori fisici fu costretto ad annullare varie date dei suoi prossimi concerti. L’ultima esibizione del padrino del soul avverrà il 21 dicembre durante un concerto di beneficienza. Morirà tre giorni dopo, colto da un’acuta forma di polmonite.

Il Live at the Apollo venne rimasterizzato nel 1990, dopo che vennero ritrovati i nastri originali della registrazione. Nel 2004 verrà pubblicata una versione deluxe del concerto con alcune tracce aggiuntive contenenti alcuni brani remixati in qualità audio migliore.


di ANTONINO BONOMO


Tracklist

James Brown
LIVE AT THE APOLLO
(King Records, maggio 1963)
  1. Introduction to James Brown and The Famous Flames
  2. I'll Go Crazy
  3. Try Me
  4. Think
  5. I Don't Mind
  6. Lost Someone
  7. Medley: Please Please Please/You've Got The Power/I Found Someone/Why Do You Do Me?/I Want You So Bad/I Love You, Yes I Do/Strange Things Happen/Bewildered/Please Please Please
  8. Night Train

    tracce aggiunte nell'edizione deluxe del 2004:
  9. Think
  10. Medley: I Found Someone/Why Do You Do Me?/I Want You So Bad
  11. Lost Someone
  12. I'll Go Crazy

16 novembre 2009

Sonny Rollins: «Il jazz non è un album con le foto dei morti»

È sopravvissuto a tutti i suoi grandi colleghi e oggi rimane l’ultimo gigante vivente dell’hard bop. Sonny Rollins, il colosso del sax, oggi ha settantanove anni e un solo desiderio: far capire alla gente che il jazz è vivo, che è necessario buttare al macero tutti quei «libri pieni di foto di musicisti morti».
John Coltrane, Miles Davis, Art Blakey, Thelonious Monk, Max Roach. Su ognuno di loro Rollins ha un ricordo, un’istantanea che va a costruire il mosaico della storia del jazz eppure ha voglia di andare oltre. Oltre i suoi cinquanta e più dischi (sette dei quali usciti tutti nel 1957, anno d’oro), oltre l’enorme influenza che ha esercitato su schiere di musicisti (compresi John Zorn, Pat Metheny, Joe Lovano, Lou Reed o gli Stones, con cui ha anche suonato), oltre il lutto che lo ha colpito pochi anni fa, quando la sua adorata moglie lo ha lasciato solo.

Signor Rollins, ha ancora qualcosa da imparare del jazz?
«Credo di avere da imparare di jazz e della musica in generale. La musica è qualcosa di cui non sai mai tutto, ecco perché è uno dei doni più affascinanti che abbiamo ricevuto da Dio».

Crede di aver da imparare più dal jazz o dalla vita?
«Beh, credo che le due cose vadano assieme. Una volta chiesero al grande Charlie Parker "che cosa suonerai stasera?", e lui rispose: "beh, suonerò tutto quello che mi succederà durante la giornata di oggi". Il jazz è la tua vita, le tue esperienze».

Una volta ha detto che il jazz trascende la vita delle persone, che è eterno, universale. È anche qualcosa che le serve per elevare il proprio livello spirituale?
«Beh, non amo quando parlo di me usare termini come "livello spirituale", perché possono essere fraintesi, può risultare che mi considero un un saggio o cose del genere. Insomma non salgo sul palco e dico "hey ragazzi, sono SonnyRollins e la mia è musica spirituale". È il mio pubblico ad usare termini del genere».

Lei viene da una famiglia di attivisti. Sua nonna, di St. Thomas (Haiti), faceva parte del gruppo di Marcus Garvey (l'attivista afroamericano che mise le basi per la nascita dei Black Panthers). Come ha accolto l'elezione del primo presidente afroamericano?
«È una domanda molto interessante. Da ragazzino mia nonna mi portava alle marce per la libertà dei neri e per i diritti di ognuno. La questione della "razza" ha accompagnato tutta la mia vita tanto è vero che ho inciso diversi dischi a tal proposito, come Freedom Suite negli anni Sessanta. Ora, quando dici come mi sento ad avere un presidente afroamericano... beh penso che simbolicamente ciò sia un'ottima cosa. E penso anche che questo simbolo, in giro per il mondo tra la gente oppressa e ancora schiava, possa essere un segnale importante. Ma se debbo dare un giudizio più approfondito, dal mio punto di vista, quello di un uomo ben più vecchio di Obama, che la politica l'ha praticata per molti anni, ecco devo dire che io mi posiziono ben più a sinistra di lui. Obama non è abbastanza radicale per me. Diciamoci la verità: la sua politica è conservatrice. Dunque sono contento di avere un presidente afroamericano, ma non mi esalto».

Ha mai sentito la responsabilità di essere uno degli ultimi grandi del jazz?
«In passato, ma oggi è diverso. Prima sentivo che era mio dovere rappresentare tutti i miei fratelli che non sono più qui. Monk, Miles, Coltrane, Parker. Ora è diverso: non si tratta di rappresentare gli altri ma di comunicare una forma di jazz alla quale la gente riesca a relazionarsi in maniera più intima. La gente vuole il jazz ma non gli viene offerto, non hanno la possibilità di viverlo, sono schiavi di una sottocultura che li tiene a distanza. In passato abbiamo avuto Louis Armstrong che è riuscito a portarlo alla massima popolarità, ma poi poco altro. Questa è la mia ambizione. Vorrei far sentire alla gente che il jazz è vivo, che non va solo letto nei libri pieni di foto di gente morta, no. Il jazz è vita, è pieno di vita e che ogni giorno è una musica diversa ».

C’è un musicista col quale non è riuscito a suonare a di cui si rammarica?
«Il primo che mi viene in mente è il grande Fats Waller che sentii da bambino quando ancora ero in culla e poi più tardi sulla radio. Lui fu la prima persona che mi fece apprezzare il jazz, riusciva a comunicarmi una gioia incredibile. Mi sarebbe piaciuto suonare con Duke Ellington e anche con Count Basie, che conoscevo bene e sapevo che apprezzava molto la mia musica. Sai... sfortunatamente non ho suonato con tutti quelli con cui avrei voluto, ma va bene così. È stato un onore farlo con tutti gli altri».

Al tempo c'erano queste due scuole di sax opposte: la sua e quella di John Coltrane. Lei ha imparato qualcosa da Coltrane?
«Assolutamente sì. All’epoca in cui suonavamo entrambi era impossibile che io apprendessi qualcosa da lui perché erano i miei stessi fan che non volevano, che tenevano al mio stile particolare. Mi volevano diverso, capisci? Ma quando lo spirito del mio amico John ha lasciato il pianeta, allora sì, ho potuto avvicinarmi a lui, assorbire la sua musica. Ma non solo. La mia storia è quella di uno molto felice e fortunato di aver imparato dagli altri mote cose. Ho imparato da Coltrane e prima di lui da Fats Waller, da Lester Young, Coleman Hawkins, Louis Jordal, dal rhythm and blues».

La storia del jazz è piena di talenti morti troppo giovani, da John Coltrane a Eric Dolphy. Chi avrebbe cambiato veramente la storia del jazz se fosse ancora vivo?
«Hai citato Coltrane e Dolphy e senza dubbio entrambi, visto che la loro missione è stata sempre quella di sperimentare, sarebbero andati avanti, cambiando la storia. Èdifficile dirlo perché ogni generazione ha idee differenti. Per non parlare poi di Miles Davis. Miles era una persona capace di tirar fuori di continuo nuove idee. Se fosse vivo chi può dire cosa farebbe oggi? Miles era creativo all'ennesima potenza, un genio».

È vero che disse di no al quintetto di Miles Davis, posto che poi fu preso da Coltrane?
«Oh, quella è una storia che è stata ingigantita dalla stampa. Ero in un’altra città e Miles stava per cominciare a fare delle cose con un nuovo gruppo. Da tempo Miles diceva di apprezzare la mia musica e di voler suonare con me. Ma per varie ragioni non riuscii a tornare in tempo a New York e quindi persi l’appuntamento, rimanendo a Chicago».

Che vita fa oggi quando non è in tour?
«Vivo fuori New York, in campagna, una vita molto tranquilla. Sa, sono vedovo da qualche anno e vivo solo nella stessa casa dove ero con mia moglie. Tutto quello di cui ho bisogno è di un posto dove poter provare col mio sax e dove stare al caldo durante l'inverno».



di Silvia Boschero (l'Unità)

15 novembre 2009

Le più grandi leggende della chitarra all'Auditorium di Roma





















Dopo la serie di concerti monografici dedicati nella scorsa stagione al basso elettrico la Fondazione Musica per Roma punterà i riflettori su uno degli strumenti più amati di oggi, che ha conosciuto nel secolo scorso una evoluzione unica nella storia della musica: la chitarra. La rassegna ospiterà alcuni tra i maestri della chitarra rock, jazz, pop e folk, come: Pat Metheny - John Scofield - Johnny Winter - Peter Green - Mike Stern e Mark Knopfler. Virtuosi capaci di sfruttare al meglio le capacità espressive delle sei corde e spesso di reinventarne e migliorarne le caratteristiche.

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14 novembre 2009

Buddy Whittington live a Roma - foto e video (13 Novembre 2009)
















Poche volte nel corso di un'intera vita si può assistere all'esibizione di un vero bluesman. A Roma il 13 novembre gli amanti della chitarra non si sono fatti scappare l'occasione d'ascoltare dal vivo il grande Buddy Whittington. Famoso per la sua lunga militanza nei Bluesbrakers di John Mayall e considerato uno dei migliori autori ed interpreti blues degli ultimi vent'anni, Mr. Whittington non ha deluso le attese. In scaletta le migliori perle del repertorio di John Mayall e Freddy King, oltre ai funambolici brani della sua carriera solista, impregnati della grande tradizione del blues elettrico. A supportare Buddy Whittington una band d'eccezione: Roger Cotton alla tastiera, Pete Stroud al basso e Darby Todd alla batteria.

di Francesco Giacalone

Ecco le immagini e il video del concerto:
(Foto di Riccardo Fortuna e Francesco Giacalone)

13 novembre 2009

We Will Rock, il musical sui Queen nel nostro Paese

Sbarca a Milano We Will Rock You il grande musical ispirato dalla musica dei Queen. La versione italiana, approvata e supervisionata dai veri componenti della band, esordirà il prossimo 4 dicembre all’Allianz Teatro di Milano alla presenza di Brian May e Roger Taylor i quali hanno selezionato in prima persona i protagonisti dello show.

Il regista Maurizio Colombi ha presentato uno per uno tutto il cast artistico: questi 27 agazzi sono tutti cantanti/ballerini/attori con un grandissimo entusiasmo oltre che talento, ovviamente.
Con tutta questa gioventù, l’atmosfera è frizzante e anche lo storico promoter Claudio Trotta (che proprio in questi giorni festegga i 30 anni di attività con la sua Barley Arts) prende la parola per sottolineare la complessità di tutto il progetto che impegnerà ogni sera più di 60 persone fra artisti e tecnici.

Anche la parte musicale sarà curatissima e, cosa fondamentale, completamente suonata dal vivo da una band di sette elementi tutti di ottimo livello; verranno eseguiti ben 23 fra i brani più celebri dei Queen, tutti in lingua originale tranne un paio tradotti in italiano per l’occasione.
Oltre a Milano, sono previste altre tre tappe (Trieste, Bologna e Roma) e questa “anomalia italiana” per un musical ha creato non pochi problemi logistici alla produzione se pensiamo che all’estero le repliche sono rappresentate sempre nello stesso teatro.
Appuntamento a teatro dunque per celebrare, nel ricordo di Freddie Mercury , la gloriosa musica dei Queen all’insegna delle grandi emozioni e del puro divertimento.


di Francesco Giacalone

11 novembre 2009

La caduta del muro di Waters, vent'anni dopo

The Wall-Live in Berlin è un album di Roger Waters contenente la registrazione dal vivo dell'Opera rock dei Pink Floyd The Wall, eseguita a Berlino, Germania, il 21 luglio 1990, in occasione dell'anniversario della caduta del Muro di Berlino

Tutto nacque quando Roger Waters, intervistato all trasmissione radiofonica In the Studio with Redbeard nel luglio del 1989, disse che The Wall si sarebbe potuto eseguire dal vivo solo in seguito alla caduta del Muro di Berlino. Pochi mesi dopo si assisterà alla caduta del suddetto muro e all'inizio della riunificazione europea. Le intenzioni iniziali di Waters erano di invitare ospiti di fama mondiale, come Peter Gabriel, Bruce Springsteen, Eric Clapton, Joe Cocker e Rod Stewart. Nessuno di loro darà però la disponibilità al progetto.

Esclusa l'ipotesi di un ritorno con i Pink Floyd (guidati dal 1985 dal chitarrista David Gilmour) vengono annunciati i seguenti ospiti: Bryan Adams, The Band, Paul Carrack, Thomas Dolby, Marianne Faithfull, James Galway, Jerry Hall, The Hooters, Cindy Lauper, Ute Lemper, Joni Mitchell, Paddy Moloney, Van Morrison, Sinead O'Connor e gli Scorpions.Il pubblico previsto all'inizio in Potsdamer Platz era di 250.000 persone, anche se prima dello spettacolo la cifra salirà fino a circa 450.000 spettatori.

La performance presenta alcune differenze con la versione originale dell'album. Mother e la seconda parte di Another Brick in the Wall presentano assoli più lunghi eseguiti da vari strumenti, In the Flesh? ha un'introduzione più estesa e Comfortably Numb termina con una nuova esecuzione del ritornello. The show must go on è esclusa, mentre sono presenti What Shall We Do Now? e The Last Few Bricks, quest'ultima più breve rispetto alla versione di dieci anni prima. The Trial viene eseguita come un'opera teatrale, con Thomas Dolby che interpreta il maestro, tenuto sospeso con dei cavi di fronte al muro, Tim Curry, interprete del procuratore, Albert Finney nel ruolo del giudice, Marianne Faithfull della madre e Ute Lemper della moglie. Il concerto è di forte impatto scenico, come dimostrano lo spettacolo pirotecnico dell'apertura, Roger Waters che butta gli oggetti dalla sua stanza nel muro durante One of my turns, I soldati nella seconda parte dello spettacolo e, ovviamente, il crollo del muro al termine di The Trial, in seguito al quale verrà eseguita The Tide is Turnig, incisa da Waters per il suo Radio K.A.O.S.. Il concerto viene trasmesso in diretta per due ore in 52 paesi.


10 novembre 2009

Steven Tyler lascia gli Aerosmith?

Fosse vero, sarebbe una brutta sorpresa. Steven Tyler se ne sarebbe andato dagli Aerosmith, avrebbe lasciato la band più famosa d’America e avrebbe in poche parole sciolto i Toxic Twins, i gemelli tossici, la coppia che lui e Joe Perry hanno formato per più di trent’anni. Con enorme successo. Con enormi guadagni. E con enormi sofferenze personali. Ad annunciarlo, con un po’ di vaghezza, è stato il chitarrista Joe Perry: “Dopo essere tornato a casa dal concerto di Abu Dhabi, ho letto online che Steven aveva abbandonato la band. Ho provato a chiamarlo, ma non mi ha risposto. Steven è noto per ste cose, non risponde mai. Ormai so com’è fatto e non me la prendo se non risponde alle mie chiamate, però adesso non so dire se se ne sia andato per sempre, o cosa. Negli ultimi mesi il suo comportamento peggiorava sempre, ma cercavo di non attaccarlo troppo perchè non volevo che un nostro litigio portasse all’annullamento di nuovi concerti. Ora i nostri impegni con il tour sono finiti, e forse è finita anche la nostra collaborazione con lui. Non so altro. Steven non è in contatto con nessun altro della band”. Insomma, Steven Tyler non è il massimo dell’affidabilità ed è forse in una delle sue solite fasi di autoesilio dalla band. Però è anche vero che ha 61 anni e non è più un bambino. Forse non ne ha più voglia. Forse, dopo quarant’anni di stravizi e stratutto, ha semplicemente voglia di andarsene in pensione. Almeno per un po’.

di Paolo Giordano (Il Giornale)


8 novembre 2009

Quentin Tarantino: Inglourious Basterds - Colonna sonora

Il 35 mm per Tarantino è la materia di cui sono fatti tutti i sogni, e lui la utilizza per raccontare il più grande tra questi, un film di guerra e vendetta che possa portare alla diretta eliminazione del Nazismo.
Cinema e nazismo, è lotta impari
Quentin Tarantino torna nuovamente a Cannes dove ormai da un lustro a questa parte è ospite fisso, sebbene con ruoli diversi, e lo fa con Ingloriuos Basterds, chiacchieratissima pellicola (a partire dal titolo ortograficamente scorretto, ma già cult) che il regista di origini italiane aveva in mente da circa un decennio. In questo lunghissimo periodo non solo Tarantino ha lavorato ad altri progetti, ma ha cambiato più volte pelle a questo Basterds, soprattutto nella storia (ormai solo vagamente ispirata a Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari) ma anche nel cast. Nonostante il lunghissimo tempo dedicato alla stesura dello script, la lavorazione del film è stata incredibilmente veloce ed ha consentito a Tarantino di presentare per la terza volta un film in concorso al Festival di Cannes, dove quindici anni or sono vinse la Palma d'oro con Pulp Fiction generando un alone di mito, da vera rockstar del cinema.

Eppure - non si capisce bene per quale ragione - per molti Tarantino è un regista costantemente sotto esame, un autore perennemente alla ricerca della maturità artistica. Forse questo Bastardi senza gloria (questo il titolo con cui il film sarà nelle sale italiane il prossimo autunno) riuscirà a convincere una volta per tutti anche i suoi più acerrimi detrattori, perchè si tratta di un film "vero", non solo mero omaggio come i precedenti (e comunque validissimi) Kill Bill o A prova di morte. Non che manchino citazioni o idee "rubate" a tanti film del passato (soprattutto italiani, i cui registi e interpreti sono omaggiati più volte attraverso i nomi di alcuni personaggi), ma escludendo Jackie Brown, che aveva origine letteraria, mai come in questo film il regista ha costruito un plot complesso che funziona bene a prescindere dai consueti "tarantinismi".

Una scena di Inglourious Basterds, war movie diretto da Quentin TarantinoTanti sono i personaggi al centro di questo war movie with a vengeance, a partire dalla giovane ebrea Shosanna Dreyfus (la francese Melanie Laurent) la cui famiglia è stata sterminata dal perfido "cacciatore di ebrei" Hans Landa (straordinariamente interpretato dalla vera sorpresa del film, il poliglotta Christoph Waltz) oppure Aldo detto "l'apache" (Brad Pitt) che guida un gruppo di ebrei americani (i basterds del titolo) il cui unico scopo è uccidere più nazisti possibile e raccogliere i loro scalpi. In più si aggiungono i due personaggi più "cinematografici" come l'ebreo di guerra diventato attore per caso Fredrick Zoller (Daniel Bruhl) o la diva del cinema tedesco Bridget von Hammersmark (Diane Kruger) che in realtà è una spia degli inglesi.

Il film è diviso in cinque capitoli (Once Upon a Time in Nazi Occupied France, Ingloriuos Basterds, German Night in Paris, Operation Kino e The Revenge of the Giant Head ) e ci presenta separatamente tutti questi personaggi per poi farli convergere tutti insieme nel grande esplosivo finale.
Ma al centro di quello che è il film più corale di Tarantino dai tempi di Pulp Fiction - nonostante quello che poteva far pensare la presenza del divo Brad Pitt, visto che in Basterds non esiste un ruolo preponderante - c'è un tema particolarmente caro al regista, tanto che ne fa il protagonista dell'intera pellicola: il cinema. Tutti conoscono la sua passione/ossessione per la settima arte, Tarantino intelligentemente utilizza questo suo amore costruendogli intorno un film di guerra in cui i buoni portano avanti la loro missione in un cinema utilizzando come arma finale la stessa pellicola.

La bionda Mélanie Laurent e Jacky Ido a confronto in una scena di Inglorious Basterds Il cinema d'altronde è il luogo in cui tutto può accadere, il 35 mm per Tarantino è la materia di cui sono fatti tutti i sogni, e lui la utilizza per raccontare il più grande tra questi, un film di guerra e vendetta che possa portare alla diretta eliminazione del Nazismo, con tanto di uccisione di Hitler e Goebbels insieme riuniti a Parigi per che cosa se non la proiezione di un film? Un colpo di scena sicuramente risibile dal punto di vista storico ma francamente geniale ed emozionante nel mostrare l'animo un po' naive di questo regista sì terrible, che fa raccogliere lo scalpo dei nazisti ai suoi protagonisti ma che sinceramente ritiene che davanti alla magia del cinema (inteso come arte ma anche come luogo fisico) tutti si raccolgano. Ed è così che questo Inglourious Basterds diventa il lavoro più personale di Tarantino, il più sincero, o come dice egli stesso attraverso l'ultima frase recitata da Brad Pitt "probabilmente il mio capolavoro". Forse non sarà lo stesso per noi (l'ombra di Pulp Fiction è ancora troppo ingombrante) ma lo è certamente per questo regista eterno bambino che fortemente crede e ci fa credere che il fascino della settima arte possa trionfare su ogni cosa.

Nella colonna sonora del film oltre ai quattro brani di Ennio Morricone spicca la magnifica Cat People di David Bowie: un brano del 1982 ain colaborazione con il famoso musicista italiano Giorgio Moroder.
(da MoviePlayer.it)
  1. The Green Leaves of Summer - Nick Perito
  2. The Verdict (Dopo la Condanna) - Ennio Morricone
  3. White Lightning (Main Title) - Charles Bernstein
  4. Slaughter - Billy Preston
  5. The Surrender (La Resa) - Ennio Morricone
  6. One Silver Dollar (Un Dollaro Bucato) - Gianni Ferrio
  7. Davon Geht Die Welt Nicht Unter - Zarah Leander
  8. The Man With the Big Sombrero - Michael Andrew/Samantha Shelton
  9. Ich Wollt Ich Waer Ein Huhn - Lilian Harvey/Willy Fritsch
  10. Main Theme from "Dark of the Sun" - Jacques Loussier
  11. Cat People (Putting Out the Fire) - David Bowie
  12. Tiger Tank - Lalo Schifrin
  13. Un Amico - Ennio Morricone
  14. Rabbia e Tarantella
  15. - Ennio Morricone
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