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L’ametista allontana gli incubi e rafforza la chiaroveggenza e la capacità di sognare.”
Una perla rara, uno scrigno semi-sconosciuto, ma totalmente degno della gloria dei giganti. Si tratta dell’omonimo album di debutto dei Dedalus, una delle tante sfuggenti realtà del
jazz-rock “made in Italy”.
L’esplosione di questa nuova filosofia musicale nei primi anni ’70 farà del territorio italiano una delle principali sorgenti musicali dalla quale nasceranno decine di formazioni che, chi più e chi meno, saranno determinanti per definire ed allo stesso tempo creare sempre diverse sfaccettature del progressive, il tutto in perfetta sintonia, musicale e cronologica, con il dilagarsi del rock progressivo inglese, francese, olandese e, soltanto in seguito, quello americano.
In mezzo alla sperimentazione e al connubio fra musica elettronica,
free jazz, musica etnica ed impegno politico degli Area, passando per il lirismo più ricercato delle Orme, attraversando l’inesauribile varietà di forme della magica PFM, esplorando le influenze del
prog inglese, sonorità mediterranee e la tradizione del melodramma italiano attraverso l’opera del Banco del Mutuo Soccorso, le altre numerose formazioni cosiddette “minori”, pur non avendo riscontrato lo stesso successo di pubblico e critica (soprattutto all’estero) ottenuto dai colossi del prog italiano, hanno comunque lasciato il segno in un’epoca dove la libertà musicale ha raggiunto il culmine sotto tutti gli aspetti: libertà totale nell’armonia, nei testi, nella sperimentazione, nella creatività, nell’impegno sociale e politico, nella follia.
L’opera di gruppi quali The Trip, Alphataurus, Quella Vecchia Locanda, Osanna, Il Balletto di Bronzo, Museo Rosenbach, Perigeo, Campo di Marte, Biglietto per l’Inferno, e così via… questi sprazzi di genialità musicale a volte si sono manifestati in un singolo album o in un solo breve periodo, per poi svanire nel nulla, rimanendo, allo stesso tempo, degli esempi unici e rari dell’istrionismo musicale italiano.
Ognuna di queste gemme ha delle caratteristiche proprie e allo stesso tempo comuni alle altre, eccezion fatta per i Dedalus. I quattro membri fondatori provengono dalla provincia di Torino ed il gruppo si forma nel 1973. Dopo i primi tentativi di ottenere degli ingaggi e i conseguenti rifiuti da parte delle case discografiche, il quartetto sbalordisce critica e pubblico durante la terza edizione del
Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze, tenutosi a Napoli nel giugno 1973; i Dedalus verranno considerati la migliore rivelazione del festival.
Partirà da qui l’ascesa del gruppo che verrà ingaggiato dall’etichetta milanese
Trident (famosa per aver pubblicato lavori discografici di The Trip, Biglietto per l’Inferno, Semiramis, etc.). I Dedalus rimarranno inoltre l’unico gruppo ad aver pubblicato due album per la storica casa discografica “specializzata” nel
progressive, dal momento che questa cessò la sua attività nel 1975.
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Una delle pochissime realtà italiane che aveva arricchito i fraseggi con esperienze personali di ricerca. Unico esempio di come si possa affrontare la sperimentazione con idee fresche e geniali evitando presuntuosi intellettualismi.”
[tratto da “Il libro bianco del pop in Italia”, Arcana 1976]
Una perfetta sintesi di ciò che il quartetto riesce ad esprimere nei quasi 40 minuti di musica interamente strumentale, dove sulla matrice del
jazz costruiscono delle vere e proprie piramidi di sperimentazione, senza però trasformarle in maestosi palazzi farciti di suoni troppo ricercati ed effetti stratosferici. Con i soli quattro strumenti e con una manciata di sonorità differenti, i Dedalus tirano fuori la più complessa arte minimalista musicale del prog italiano.
I protagonisti di questa nuova (per l’epoca) “filosofia della sperimentazione” portano i nomi di Fiorenzo Michele Bonansone (tastiere, violoncello, fisarmonica), Marco Di Castri (chitarra, sax), Furio Di Castri (basso) ed Enrico Grosso (batteria). L’originale miscela
jazz-rock contenuta nel primo album potrebbe, ad un primo ascolto, far pensare alle sonorità
fusion, ma ciò che avviene già nella prima traccia, “Santiago”, fa capire come i Dedalus vogliano andare di proposito oltre gli schemi dell’epoca, prendendo una direzione totalmente astratta, risentendo fortemente dell’influenza dei pionieri Soft Machine (in particolare nell’utilizzo del violoncello e del sax).
Caratteristica ricorrente in tutti i brani, ma in modo più accentuato nella suite “CT 6”, è la presenza costante del sottofondo musicale che crea un vero e proprio ambiente che non è mai troppo statico, e permette di inserire dei “
micro-innesti” sonori che vanno a contaminare l’esecuzione e a renderla via via sempre più concreta.
Ecco quindi che con pochi piccoli interventi solistici di chitarra elettrica, sax, violoncello e suoni psichedelici, il gruppo non si preoccupi nemmeno per un istante di prolungare a dismisura gli assoli, preferendo mantenere un perfetto equilibrio musicale che si mantiene costante in tutti i 5 brani.
L’apparente semplicità delle composizioni riesce a velare, e mai a prevalere, sui fugaci e accattivanti virtuosismi ritmici della batteria di Grosso e del basso onnipresente di Di Castri, mentre l’atmosfera creata dalle tastiere di Bonansone e dagli effetti stralunati della chitarra di Marco Di Castri riescono a proiettare gli ascoltatori in un vero e proprio viaggio sperimentale.
In questo primo album dei Dedalus, oltre alla novità del sound perfettamente in linea con il movimento contro culturale italiano, troviamo sia gli stilemi già collaudati dai jazzisti più famosi (notevoli le influenze della sperimentazione creata dalla prima produzione dei Weather Report), sia quelle sonorità d’avanguardia che caratterizzano i Perigeo, forse l’unico gruppo che più si avvicina allo stile dei Dedalus.
Con il successivo album,
Materiale per tre esecutori e nastro magnetico (pubblicato sempre per la
Trident nel 1974), i Dedalus cambiano rotta passando all’uso di suoni più avanguardistici con molto uso dell’elettronica, sfornando un album che richiama a tratti la sperimentazione creata dai Pink Floyd con
Ummagumma nel 1969.
Nonostante la buona attività
live che si contrappone alle scarse vendite degli album, il gruppo si scioglie definitivamente verso la fine degli anni ’70 (il bassista Furio Di Castri lascerà i Dedalus dopo il primo album per avviare una carriera solista come contrabbassista, mentre il batterista Enrico Grosso abbandona nel 1977). Ci sarà una reunion nel 1990 della formazione del secondo album, mentre nel 2000 Michele Bonansone darà vita con nuovi componenti al Bonansone Dedalus Group che si presenta con un nuovo stile post-minimalista.
Una totale libertà espressiva, volutamente raggiunta dai membri del gruppo, che sfocia in un
ensemble musicale che non ha pari nel fruttuoso panorama musicale italiano dei primi anni ’70. Una vera e propria rarità e una delle tante “ametiste” del
progressive che consiglio agli appassionati del genere.
di ANTONINO BONOMOTracklist
DEDALUS
(Trident, 1973)
- Santiago
- Leda
- Conn
- CT 6
- Brilla
Composizioni e arrangiamenti dei Dedalus.
Line-up:
Fiorenzo Michele Bonansone - pianoforte, Fender piano MK1, EMS synthesizer
Marco Di Castri - chitarra elettrica, sax tenore
Furio Di Castri - basso
Enrico Grosso - batteria e percussioni