Un raro esempio di commistione musicale: l’originale, scarna, rozza e oscura verve del blues nero americano si unisce all’aurea morbida, ai toni più aggraziati e alle sonorità più frizzanti del blues inglese. Questo è ciò che trasmettono i protagonisti della storica session tenutasi agli Olympic Studios di Londra dal 2 al 7 maggio del 1970.
Chester Arthur Burnett nasce nel Mississippi nel 1910. La musica lo incanta fin da piccolo, quando iniziò ad ascoltare i primi bluesman quali Jimmie Rodgers, Charlie Patton (che diventerà il suo maestro di chitarra). Imparerà, inoltre, a suonare l’armonica grazie ad un altro suo grande maestro e amico: Sonny Boy Williamson II.
Dopo il lavoro nei campi dell’Arkansas e il servizio di leva durante la Seconda Guerra Mondiale, Chester si dedica alla musica mettendo su una sua prima band e iniziando le registrazioni per la Modern e la Chess Records. È proprio in questo periodo che il suo stile blues e il suo soprannome lo rendono famoso in tutto il mondo.
Howlin’ Wolf sconvolge le orecchie degli amanti del blues con la sua voce roca e tagliente che rivoluziona l’essenza del blues di Chicago rivelando il lato più scuro e grezzo sia dei testi che del sound. Il soprannome, che sembra derivi dalle storie di lupi che gli raccontava il nonno, calza a pennello con gli urli e i fraseggi tipici di Wolf che sfoga tutta la sua carica blues e il suo temperamento nei testi degli standard dei suoi predecessori, forgiando al tempo stesso nuovi brani che portano la sua firma e che diventeranno a loro volta dei celebri standard per le generazioni future.
Anomalo cantante blues e anomalo bluesman anche nel suo stile di vita, dal momento che, a differenza di molti altri suoi illustri colleghi che vissero di stenti e diventarono ricchi dopo la loro morte, Howlin’ Wolf godette di buone condizioni economiche e di un successo di tutto rispetto per tutta la sua carriera fino alla morte, nel 1976.
Si sono appena conclusi gli anni ’60, e con loro, oltre ai Beatles, finisce un’epoca storica per la musica: un tramonto che segna, in realtà, un nuovo inizio, una vera e propria trasformazione di tutto quello che il rock, il blues e il jazz hanno impresso nella leggenda. Stanno per nascere il progressive e il fusion, mentre per l’hard rock e il blues si apriranno nuove porte dalle quali usciranno miscugli di vecchio e nuovo, tradizionale e innovativo, “razionale” e “fuori di senno”, e il buon vecchio “lupo del blues” si troverà nel bel mezzo di questa rivoluzione.
Inizia tutto dalla storica Chess Records di Chicago; il giovane produttore Norman Dayron, fresco della produzione di Fathers and Sons di Muddy Waters, sta già pensando al suo altro mito, e non solo: vuole affiancare ad un veterano del blues un gruppo di giovani talenti, nonché star del momento.
È così che durante un concerto al Fillmore West, tramite Mike Bloomfield, Dayron incontra un giovane chitarrista che a soli 25 ha già fatto parte di supergruppi, ha fatto suo il blues e lo ha rivitalizzato facendo impazzire i giovani degli anni ’60 che gli hanno dedicato frasi scritte sui muri. Quando Dayron gli propone di registrare un disco con un “certo” Howlin’ Wolf, Eric Clapton ha già firmato il contratto ed ha già contattato la sezione ritmica dei Rolling Stones.
Tutto fatto. Inizia qui la catena di montaggio che produrrà The London Howlin’ Wolf Sessions, non solo un ennesimo capolavoro del blues, ma anche punto di contatto tra due generazioni musicali, un evento unico e precursore.
Oltre a Charlie Watts e Bill Wyman, Clapton richiede fortemente anche il “sesto Rolling Stone”, il quasi dimenticato Ian Stewart, pianista, nonché uno dei fondatori degli Stones che dovette poi abbandonare il gruppo anche se solo “ufficialmente”, continuando infatti ad essere il road manager della band e ad incidere il piano in molte loro registrazioni. Dayron reclutò anche Hubert Sumlin, chitarrista e storico componente della band di Wolf, e il diciannovenne armonicista prodigio Jeffrey Carp.
Ma in tutto questo, che ne pensa Howlin’ Wolf dell’idea di Dayron?
Si narra che il produttore sudò non poco per riuscire a domare il carattere non proprio malleabile di Burnett. Dayron aveva sentito molte storie sul carattere di Howlin’ Wolf; quando andò a vedere un suo concerto, si aspettava che Wolf portasse in scena un vero e proprio voodoo show, che avrebbe sacrificato un pollo vivo o che sarebbe uscito di testa, che si sarebbe messo ad urlare o che avrebbe combinato la qualunque su quel palco. E invece, Howlin’ non fece niente di tutto ciò. Anzi, come dichiarò lo stesso Dayron, tirò fuori una performance straordinaria, uno spettacolo musicale sostenuto dalla sua voce e dagli ottimi musicisti della sua band.
Dopo il trionfo del primo “esperimento” ottenuto con l’album Fathers and Sons (nel quale riuscì ad amalgamare insieme il blues di Muddy Waters con il rock puro di Mike Bloomfield, Paul Butterfield, Buddy Miles e Duck Dunn), Dayron si convinse a ripetere l’impresa: registrare l’inimitabile voce di uno dei più rivoluzionari bluesman contemporanei con un sottofondo musicale altrettanto fuori dal comune per un classico disco blues.
Il giovane produttore risultò essere così determinato nel suo intento da riuscire a convincere perfino lo stesso protagonista che inizialmente si mostrò reticente al progetto. Ma alla fine, l’idea di rispolverare il sound delle sue stesse composizioni piacque perfino ad un duro come Howlin’ Wolf.
Dayron scandagliò con cura il repertorio di Wolf, cercando di selezionare quei brani che potessero dar pieno risalto alla sua voce e al tempo stesso consentire ai musicisti di esprimere al meglio il sound. E nel frattempo, dovette anche preoccuparsi delle precarie condizioni di salute di Howlin’ a causa della sua dipendenza dall’alcool. E quando si azzardava a consigliare di moderare il suo stile di vita, bastava un’occhiataccia o un ghigno di Wolf per capire che non l’avrebbe mai ascoltato, neanche quando ordinò al servizio dell’hotel dove alloggiava Wolf a Londra di non portargli alcolici in camera.
Dopo il trasferimento dei musicisti da Chicago a Londra, il 2 maggio si mette in moto la produzione dell’album. Come tutti i capolavori che si rispettino, anche questo ha le sue curiosità e i suoi aneddoti, e iniziano proprio il primo giorno, quando si scopre che Charlie Watts e Bill Wyman non erano disponibili a causa di impegni già stabiliti in precedenza. Per non perdere le preziose (e costose) ore già prenotate agli Olympic Studios, Dayron contatta il Beatle Ringo Starr, il quale porta con sé il suo amico bassista Klaus Voorman. Recuperata la sessione ritmica, il gruppo si mette a lavoro registrando i primi brani, ma sorgono subito le prime discordie fra Howlin’ Wolf e Ringo Starr, il quale, essendo un batterista rock, non riesce a dare la giusta consistenza agli shuffle blues. Finirà qui l’avventura di Starr e Voorman che verranno rimpiazzati il giorno successivo da Watts e Wyman.
Un’altra sorpresa del primo giorno riguarderà anche Mr. Slowhand. Appena arrivato in studio, Clapton trova Hubert Sumlin in un angolo mentre accorda la chitarra, al che, intimidito, si rivolge a Dayron chiedendogli “Per che cosa mi hai ingaggiato? Voglio dire, c’è già Hubert, lui è il mio idolo ed è perfetto per Wolf, io non ti servo!”. La risposta di Norman lo lasciò di stucco: “Hubert registrerà solo le parti ritmiche, suonerai tu la chitarra solista.”
Un’altra svolta decisiva per le sorti del disco avvenne durante alcune prove prima delle registrazioni vere e proprie. Gli attriti fra il gruppo e Howlin’ Wolf non mancheranno, considerando sia il carattere di quest’ultimo sia il fatto che si trovavano insieme in studio per la prima volta. Ma fu durante la registrazione di “The Red Rooster” che le cose cambiarono; Clapton stava provando un riff con lo slide, quando Wolf gli da un suggerimento.
Per non sbagliare una seconda volta, Clapton passa la chitarra acustica a Wolf e gli chiede di suonare la base in modo da poter dare una guida ai musicisti. L’occhiata di Howlin’ e il suo stupore di fronte ad una richiesta del genere inizialmente fecero gelare lo studio: era come se una recluta si fosse permessa di sfidare il proprio sergente durante un’esercitazione. Ma subito dopo anche gli altri musicisti incitarono il vecchio bluesman a suonare il brano, in modo da poterlo eseguire esattamente come lui lo preferiva. Clapton insistette, e alla fine Wolf accettò, vincendo l’insicurezza e padroneggiando la sua vecchia acustica Sears Silverstone che negli ultimi anni aveva un po’ tralasciato.
Come dichiarerà lo stesso Dayron che assistette a tutta la scena da dietro il vetro in regia, il ghiaccio fu rotto e le registrazioni andarono sempre meglio: “Si era infranta quella ‘barriera’ di timore da parte dei giovani musicisti e di distacco da parte del leader, creando i presupposti giusti per lasciar fluire la musica.”
La magia che si creò in studio da quel momento è scolpita nelle tracce dell’album: la band porta il blues oltre le tradizionali 12 bar grazie al ritmo talvolta serrato, talvolta quasi country dell’accademico Charlie Watts e grazie alle linee di basso di Bill Wyman che esce fuori dai canoni degli Stones e si improvvisa un perfetto bassista blues con la giusta dose di innovazione. Ian Stewart non fallisce un colpo con il suo celebre tocco che garantisce l’atmosfera pianista gradevole e longeva dell’album, così come ha contribuito a farlo da esterno negli Stones, al pari della forza sprigionata dal duo Jagger/Richards.
Un debutto da sogno, invece, per il diciannovenne armonicista Jeffrey Carp che si ritrova immerso fra delle vere e proprie leggende. Una di queste, Howlin’ Wolf, non si risparmierà per tutta la durata delle registrazioni, nonostante le sue condizioni di salute non certo sfavillanti, e nonostante il suo fisico venisse messo a dura prova, come quando alla fine della seconda giornata in studio viene colto da un collasso e sviene in bagno. Perfino quando Dayron lo ritrova privo di sensi e lo accompagna fuori verso l’ambulanza Wolf si rifiuta di salirci sopra. Chester se ne infischia e, come sempre, urla al microfono la sua voce, unica e riconoscibile per fino dallo spazio, cantando i lamenti celebri del blues, le storie d’amore fallite, il sogno del bluesman maledetto che si ribella all’oppressione, al razzismo, trovando la “pace” nella bottiglia e nella chitarra. Wolf mette da parte i suoi 60 anni e torna a divertirsi con la musica come fosse un ragazzo, circondato da suoi coetanei.
Uno di questi, in particolare, riuscirà a farlo uscire dal suo “guscio”, strappandogli un commento quale “Quel ragazzo con quella chitarra laggiù è fuori dal comune!”. Eric Clapton sfodera una delle sue migliori performance blues di sempre, lanciando le ultime fiamme prima di sfociare di li a poco nell’estasi più totale con i Derek and The Dominos, per poi crollare nel tunnel della tossicodipendenza ed uscirne soltanto 3 anni più tardi, per tornare di nuovo sul tetto del mondo e portare avanti un lungo percorso musicale che contribuisce ancora oggi a renderlo uno dei pochi immortali della storia della musica contemporanea.
Purtroppo, una piccola nota dolente nell’ensemble musicale intaccherà la performance dell’altra leggenda della chitarra blues, Hubert Sumlin. Quando Dayron porta i nastri a Chicago per il missaggio finale alla Chess, si accorge che l’amplificatore di Sumlin non è stato degno del suo esecutore, rovinando buona parte delle incisioni.
A questo punto, il produttore non può fare altro che salvare il salvabile, sovra-incidendo la parti di chitarra mancanti attraverso le chitarre di Paul Asbell e BeBop Sam, entrambi musicisti di Chicago e turnisti della Chess Records. Per colmare, inoltre, alcune lacune sonore, Dayron inserisce alcune parti di basso eseguite da Phil Upchrch e altri riff di tastiera eseguiti dall’ex-collega di Clapton negli appena scioltisi Blind Faith, Steve Winwood.
Le sovra-incisioni completano quindi l’odissea dell’album che viene pubblicato dalla Chess nell’estate del 1971. Un’ulteriore edizione “ri-visitata” verrà pubblicata 3 anni più tardi, mentre nel 2003 viene rilasciata l’immancabile Deluxe Edition che contiene altre registrazioni scartate dal missaggio finale, nonché il celebre fuori onda fra Howlin’ Wolf ed Eric Clapton durante le prove di “The Red Rooster”.
Gli sforzi del giovane produttore Norman Dayron, uniti al preziosissimo contributo musicale del cast d’eccezione delle registrazioni, alla fine hanno dato alla luce i frutti sperati: l’album ottiene un ottimo successo commerciale ed entra di diritto nella storia del blues, identificandosi come uno degli eventi musicali più riusciti del genere.
Per chiudere questo breve capitolo della storia del blues, leggete queste ultime righe come se fossero le frasi di un narratore esterno che sta per concludere la sua storia fatta di ricordi, di emozioni e, perché no, di leggende:
“Wolf non riusciva a credere che uno sbarbatello bianco sarebbe stato il suo produttore. Ma rimase talmente sbalordito dalla determinazione di Norman nell’ottenere il suo rispetto che alla fine mise da parte l’orgoglio e accettò il progetto. E sicuramente, dopo la pubblicazione dell’album e il suo successo, chissà quante volte Wolf avrà ringraziato Dayron per aver creduto in lui…. Neanche una volta, secondo il sottoscritto. Mi piace pensare che Wolf gli sia stato grato, si sia divertito durante le registrazioni con i suoi straordinari giovani discepoli e il giorno dopo la fine delle sessions sia rientrato nel suo turbinio esistenziale scandagliato dai suoi lamenti blues, dalle strida della sua armonica, seduto sulla sua sedia a dondolo con una bottiglia ai suoi piedi e con la mente già immersa in un altro viaggio: un ennesimo travaglio diretto verso il prossimo ‘incrocio’ dove poter incontrare i suoi predecessori ed unirsi con loro alla danza del diavolo.”
di ANTONINO BONOMO
Tracklist
Howlin' Wolf
THE LONDON HOWLIN' WOLF SESSIONS
(Chess Records, 1971)
- Rockin' daddy (Howlin' Wolf - registrazione del 4/5/1970)
- I sin't superstitious (Willie Dixon - registrazione del 2/5/1970)
- Sittin' on top of the world (Mississippi Sheiks - registrazione del 6/5/1970)
- Worried about my baby (Howlin' Wolf - registrazione del 7/5/1970)
- What a woman! (James Oden - registrazione del 7/5/1970)
- Poor boy (Howlin' Wolf - registrazione del 4/5/1970)
- Built for comfort (Willie Dixon - registrazione del 7/5/1970)
- Who's been talking (Howlin' Wolf - registrazione del 7/5/1970)
- The red rooster (rehearsal 7/5/1970)
- The red rooster (Willie Dixon - registrazione del 7/5/1970)
- Do the do (Willie Dixon - registrazione del 6/5/1970)
- Highway 49 (Joe Lee Williams - registrazione del 6/5/1970)
- Wang dang doodle (Willie Dixon - registrazione del 4/5/1970)
Line-up:
Howlin' Wolf - vocal, harmonica, bottleneck guitar
Eric Clapton - lead guitar
Hubert Sumlin - rhythm guitar
Bill Wyman - bass
Charlie Watts - drums
Ian Stewart - piano
Jeffrey Carp - harmonica on tracks 3, 5, 6, 12, 13
Steve Winwood - piano, organ on tracks 2, 5, 6, 8, 12
Ringo Starr - drums on track 2
Klaus Voormann - bass on track 2
Jordan Sandke - trumpet on tracks 2, 7
Dennis Lansing - tenor saxophone on tracks 2, 7
Joe Miller - baritone saxophone on tracks 2, 7
Lafayette Leake - piano on tracks 3, 4, 10
John Simon - piano on track 8
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