Una ragazza russa muore partorendo una bambina, l’allevatrice legge il diario della defunta e cerca di rintracciare le origini della famiglia per affidarne la custodia. Conoscerà Nikolai, servo della mafia russa, e sarà travolta dal tumultuoso scorrere degli eventi tra degrado, prostituzione e criminalità. Per il suo 16° lungometraggio, Cronenberg sceglie un’altra storia di violenza e di rimpianti dove ancora una volta è il passato a condizionare la vita di un uomo e le sue azioni.
Quello che in apparenza sembra possedere la scorza di un thriller gangsteristico contiene invece in sé le caratteristiche, i significati e la profondità di una vera e propria tragedia morale. Attraverso una scrittura di asciutta semplicità, Cronenberg dipinge la crudeltà di un microcosmo malato e corrotto, inevitabilmente contaminato dalla violenza e dall’avidità di potere.
A far da sfondo a questo spietato affresco vi è una Londra assente, inerme alle contraddizioni e alle malvagità della vita; è anch’essa spettatrice di quell’universo ottuso e dittatoriale che è l’emblema del lato oscuro dell’umanità, il suo legno storto. Come in “A history of violence”, che può essere considerato il suo corrispettivo, Cronenberg effettua una radiografia dell’animo umano, analizzandone soprattutto la componente animalesca: istinto di sopravvivenza, vendetta, invidia. Sorretto da un tono funereo e segnato da squarci di violenza improvvisa, l’ultima pellicola del grande regista canadese è anche un apologo sulla labilità e l’ambiguità della moralità umana.Tutto ciò che non c’è o meglio non viene detto nella sceneggiatura di Steve Knight si carica di un’ambivalenza significativa e misteriosa al punto che l’ignoto diventa un pregio, non un difetto.
Attraverso l’interessante teoria secondo cui gli schiavi partoriscono schiavi, Cronenberg elabora un discorso sulla virulenza del destino che contagia le sue vittime scegliendole con preferenze di sesso, classi sociali, nazionalità. Il mondo delle persone “normali” si trova al di fuori di quello che è l’habitat “naturale” del mondo criminale: un ristorante cupo e purpureo come il sangue che lo intinge. Il personaggio di Nikolai, nella sua rassegnata e sconsolata visione che ha del mondo, rappresenta la chiave di lettura del film: egli è sull’orlo di un abisso, in perenne oscillazione tra il bene e il male. Dopo una notevole azione benefica nei confronti di Anna e della di lei figlia adottiva, in questa pessimistica eppur non nichilista visione della realtà umana, la voce fuori campo di Tatjana pronuncia le stesse parole del folgorante incipit iniziale: “Tutti noi, in Russia, siamo nati già morti”. Il finale antiretorico, senza lieta fine né catarsi, è coerente con il resto del film e lascia spazio d’interpretazione allo spettatore.
Due le scene memorabili in cui il regista riesce a portare il suo sguardo visionario ad un livello di stregonesca abilità: la sequenza in cui Nikolai, disarmato, si trova a dover affrontare due gangster sullo sfondo di una sauna tanto onirica quanto inquietante, degna di entrare in una ideale antologia di scene d’azione e quella in cui il protagonista si trova al cospetto della cosca criminale e presta il suo giuramento all’organizzazione attraverso l’incisione dei tatuaggi; metafora di ciò che non si può dimenticare, è accaduto, accade e forse continuerà ad accadere.
di Danilo Cristaldi
(dal sito MyMovies.it)
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