23 gennaio 2011

Recensione: John McLaughlin - Devotion

“Ho scoperto la musica nera Americana all’età di 11 anni: Big Bill Broonzy, Muddy Waters, Leadbelly a il delta blues del Mississippi. Una rivoluzione per me! All’età di 13 anni, iniziai ad ascoltare il flamenco, un’altra rivoluzione. A 14 anni, scoprii il jazz, con Django Reinhardt; ebbene si, un’altra rivoluzione! Poi mi imbattei in Miles Davis, Bill Evans.. e soprattutto in John Coltrane: ne rimasi stravolto!”
[John McLaughlin]

Comincia così la storia del britannico John McLaughlin, uno dei più grandi chitarristi che lo strumento a 6 corde abbia mai conosciuto, colui che ha attraversato e allo stesso tempo forgiato qualunque genere si possa tirar fuori dalle note.

Flamenco, blues, hard rock, jazz, swing, fusion, chitarra classica, chitarra elettrica, chitarra indiana.. una sola etichetta sbiadisce di fronte all’intera carriera di McLaughlin, durante la quale prendono forma diversi e fondamentali episodi.

Dopo gli studi di pianoforte e musica classica, si avvicina al blues, per essere poi travolto dal sound accattivante dello swing e soprattutto del jazz, prima di intraprendere una breve collaborazione con Georgie Fame and the Blue Flames. Dopo aver ascoltato per la prima volta “A love supreme” di John Coltrane, si converte totalmente al jazz, entrando a far parte prima della band di Alexis Korner e successivamente della Graham Bond Organization, dove incontra altri due jazzisti, Ginger Baker e Jack Bruce, durante la loro fase pre-Cream.

Forma quindi il suo primo quartetto, con Dave Holland al contrabbasso, Tony Oxley (il futuro fondatore della Incus Records) alla batteria e John Surman al sax. Con questi ultimi due, più Brian Odgers al basso, inciderà il suo primo album solista, Extrapolation, pubblicato nel 1969, nel quale McLaughlin si fa conoscere al mondo intero per il suo particolarissimo stile che in queste prime registrazioni rimane a metà fra il jazz tradizionale e le forme nascenti del jazz vanguard. Contemporaneamente intraprende alcune collaborazioni fondamentali: partecipa all’album di Tony Williams Emergency! (1969), per essere poi “rapito” da Miles Davis, che lo inserisce nella line-up di alcuni suoi album (diventati poi delle pietre miliari), In a Silent Way, Bitches Brew, On the Corner, Big Fun, A Tribute to Jack Johnson.

Già in queste prime incisioni, McLaughlin si mette in mostra per il suo jazz-fusion totalmente all’avanguardia soprattutto per i tempi, diventando inoltre un session-man molto ricercato da artisti del calibro di Miroslav Vitous, Larry Coryell, Carla Bley e Rolling Stones.

Resterà storica, ma purtroppo ancora ignota ai cultori, la registrazione effettuata al Record Plant di New York il 25 marzo del 1969, durante la quale McLaughlin viene invitato dal batterista Mitch Mitchell a partecipare ad una jam session con Jimi Hendrix in persona, grande fonte di ispirazione per lo stesso McLaughlin.

“Fu la prima volta che incontrai Jimi. Una persona straordinaria! E che chitarrista! Jimi mi impressionò. Suonammo dalle due di notte fino alle otto del mattino, fu un’esperienza unica. Io suonai principalmente una chitarra acustica amplificata da un pick-up, mentre lui suonò tutto quello su cui riuscì a mettere le mani: chitarra acustica, elettrica, sintetizzatori, e così via…”
[John McLaughlin]

Nel 1969, John firma un contratto con la Restless con il quale si impegna a pubblicare due album: uno di questi lavori sarà Devotion.

Ciò che si scatena nei Record Plant di New York, nel febbraio 1970, risulterà travolgente quanto una tempesta formata da un miscuglio di tutto ciò che si può creare con le singole note, con l’aggiunta di effetti sonori stratosferici, creatività, estasi, improvvisazione, e magari giusto un po’ di follia. La vera pazzia dell’intero disco (perché proprio di questo si tratta) può forse essere intravista attraverso la copertina distorta, quasi amalgamata con tutto quel mistico che si nasconde dietro alla vena psichedelica sempre presente nel portfolio di McLaughlin.

Con la produzione di Alan Douglas, già famoso (nel bene e nel male) per la sua collaborazione con lo stesso Jimi Hendrix, McLaughlin incide tutta la sua carica elettrostatica accompagnato dalla batteria di Buddy Miles, dall’organo di Larry Young e dal basso di Billy Rich. Il quartetto darà vita alle stravaganti composizioni di McLaughlin, attraverso incredibili tappeti musicali talvolta taglienti quanto travolgenti come un’onda oceanica che investe l’udito fino quasi a dissacrare l’essenza stessa degli strumenti.

Non esiste un vero e proprio genere che possa catalogare quest’album: hard-jazz-rock “distorto”, rock, blues, psichedelia, fusion… una moltitudine che la dice lunga sul catalogare John McLaughlin soltanto fra i chitarristi prevalentemente jazz.

Così come di jazz potrebbe esserci ben poco nella line-up stessa: Buddy Miles, il prorompente batterista-cantante (fresco dell’esperienza con la Band of Gypsys di Jimi Hendrix), con il suo drumming possente e tumultuoso scandisce il ritmo delle esecuzioni creando la giusta intensità fino al punto di esplosione; Billy Rich, bassista quasi sconosciuto al grande pubblico, ma tecnicamente molto valido, forte anche delle collaborazioni sia con Buddy Miles che con Taj Mahal, Paul Butterfield, Jackie Lomax e così via; completa il quartetto Larry Young (all’anagrafe Khalid Yasin Abdul Aziz), organista e pianista jazz, un nome abbastanza noto nell’ambito jazzistico soprattutto per il suo originale stile modale apportato sull’organo Hammond B-3, una vera novità che a partire dalla seconda metà degli anni ’50 rivoluzionò il territorio quasi “sacro” dello stile pianistico tipico del soul, introdotto dal suo caposcuola Jimmy Smith.


L’assemblaggio stesso dell’album influirà notevolmente sul risultato, aumentando il carattere misterioso delle composizioni di McLaughlin. Il viaggio inizia con i suoni psichedelici di “Marbles” che introducono l’arpeggio disconnesso di chitarra, per poi interrompersi e lasciar spazio al drumming di Buddy Miles, con tanto di effetti eco e sustain; ed ecco che la miccia viene innescata dal possente riff di McLaughlin che verrà eseguito in loop dal basso di Rich, mentre Young tesse il tappeto organistico sul quale McLaughlin si sbizzarrisce con improvvisazioni a base di wah-wah e suoni elettrici.

Con un effetto di dissolvenza si passa a “Siren”, dove cambiano sia il ritmo sia i suoni degli strumenti, ora meno psichedelici e più incentrati sul funky. Inizia qui il vero climax dell’album, ovvero quando improvvisamente il volume si abbassa per poi rialzarsi e lasciare che Young, Rich e Miles creino la giusta catarsi di tappeti musicali psichedelici per dar spazio all’incredibile solo di McLaughlin, il quale inizia giusto con qualche leggero tocco funky per poi lanciarsi nel suo tipico stile fusion, con distorsioni, delay e wah-wah che lasciano con il fiato sospeso, mentre Miles e Rich incalzano il ritmo martellante all’unisono.

Ecco raggiunto il punto di non ritorno, spezzato soltanto dal volume che si abbassa nuovamente per ridare spazio all’arpeggio di chitarra che ha aperto il disco.

Arriva la terza traccia, che ricalca il copione precedente, ma stavolta con un groove ancora più incalzante e tumultuoso, dove è Buddy Miles a farla da padrone, mentre gli altri si perdono fra le note. Sarà McLaughlin, invece, a condurre il brano successivo, “Purpose of when”, dove mette in atto un solo straziante che lascia sullo sfondo gli altri musicisti. In “Dragon song” si raggiunge il vero timbro hard rock della formazione che lascerà spazio per la traccia finale lunga più di undici minuti, dove ritorna l’atmosfera psichdelica e fusion che chiude definitivamente l’album.

Follia allo stato puro, che si trasforma in perfetta simbiosi musicale, senza mai sfociare nell’eccesso. È proprio questo uno dei risultati più importanti ottenuti durante la fase di missaggio e montaggio: le composizioni hanno tutte la giusta durata, non si prolungano mai oltre i 6 minuti (tranne l’ultima traccia); una caratteristica studiata apposta per le registrazioni, dato che i picchi di volume e di intensità sono notevoli, tanto da risultare sgradevoli se prolungate per oltre 10 minuti.

Questo “tagliare e ricucire” ha sancito però il punto di rottura della collaborazione fra McLaughlin e il produttore Alan Douglas, dal momento che il missaggio finale fu eseguito da quest’ultimo mentre McLaughlin era impegnato in altri progetti, e quindi non venne interpellato nella rifinitura delle sue composizioni. Lo stesso McLaughlin arriverà a dichiarare che l’intero lavoro è stato distrutto da Douglas, e quindi non rimarrà per niente soddisfatto della sua opera, nonostante il risultato sia ugualmente eccellente, apprezzato anche dalla critica di settore.

Per questo motivo, quindi, Devotion si trasforma in una sorta di viaggio introspettivo che ha però un limite ben preciso e rappresenta un punto di passaggio nella carriera di John McLaughlin, che di lì a poco formerà la Mahavishnu Orchestra, per dar vita ad uno dei più straordinari capitoli del genere fusion.


di ANTONINO BONOMO



Tracklist

John McLaughlin
DEVOTION
(Douglas Records, settembre 1970)
  1. Marbles
  2. Siren
  3. Don't let the dragon eat your mother
  4. Purpose of when
  5. Dragon song
  6. Devotion

All compositions written by John McLaughlin.

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