Se non avete mai assistito ad un concerto di Johnny Winter non arriverete mai sino in fondo a comprendere cos'è il blues della torrida provincia americana. Se dopo molti anni passati ad ascoltare, suonare, ammirare o idolatrare i miti degli anni cinquanta e sessanta vi manca ancora un'esperienza "forte", ecco, con Johnny Winter coglierete il senso di ciò che questa musica rappresenta per un certo tipo d'America.
Nella vita, molto di rado si ha il privilegio d'ascoltare dal vivo dei grandi bluesman: stelle del firmamento come B. B. King o John Mayall e artisti poco conosciuti al grande pubblico come Joe Pitts o Shawn Pittman (solo per citare i più freschi nella memoria). Ognuno di loro lascia un segno vivo e indelebile sulle anime di chi ascolta. Potete quindi credere di aver assaporato a pieno il gusto del blues in gran parte delle sue forme. Ma stanotte, sette marzo duemiladieci, all'Auditorium di Roma di sicuro avete provato qualcosa di nuovo. Terribilmente nuovo. La sensazione, cioè, di trovarsi fuori luogo, di non riuscire a reggere, di sentirsi ubriachi e stremati pur stando comodamente seduto sulle rosse poltrone della Sala Sinopoli.
Johnny Winter ha dato prova di essere un incallito electric-bluesman col cuore legato indissolubilmente alla propria terra. Non un brano rilassante, vicino magari alle influenze soul degli esordi. Non un momento per tirare il fiato: il blues del vecchio Johnny ha "straziato" le menti ed è arrivato dritto alle budella. In tutti i brani un ritmo unico, martellante; una voce (ormai più che logora) che cerca di tanto in tanto di imitare se stessa; una chitarra sporca, rozza, violenta e imprecisa. Ma tutto ciò non conta. Al vecchio Johnny e alla sua gente interessa solo il groove. Un brano dopo l'altro, ci si rende conto che non si sta soltanto assistendo ad un concerto ma ad una lezione sul floklore americano. Un brano dopo l'altro si ha la percezione di essere capitato nel posto giusto ma nel momento sbagliato. Perchè? Johnny Winter ha incarnato per anni la figura del bluesman e della rockstar, del traghettatore e del messia. Sulle sue spalle ha portato il fardello di tante "culture" e di tante "tradizioni sonore" che mescolava perfettamente fra le dita, creando, album dopo album, lavori che univano qualità ed eterogeneità. Oggi quel fardello lo ha volentieri lasciato a qualcun'altro.
Il vecchio Johnny, curvo e malandato ha tutta l'aria di qualcuno che se ne frega di te, della tua vita, del tuo vissuto e delle tue origini. E' come un vecchio che ama raccontare le leggende e le tradizioni locali a qualunque forestiero incontri appena fuori il proprio ranch, ripetendo la stessa trama mille volte, senza fermarsi mai, senza guardarti negli occhi per comprendere se hai capito qualcosa. A Johnny non interessa, nella sua musica stanotte abbiamo ascoltato il ritmo di quel Texas che nessuno di noi capirà mai.
(Premio Nobel per la letteratura 1962)
Nella vita, molto di rado si ha il privilegio d'ascoltare dal vivo dei grandi bluesman: stelle del firmamento come B. B. King o John Mayall e artisti poco conosciuti al grande pubblico come Joe Pitts o Shawn Pittman (solo per citare i più freschi nella memoria). Ognuno di loro lascia un segno vivo e indelebile sulle anime di chi ascolta. Potete quindi credere di aver assaporato a pieno il gusto del blues in gran parte delle sue forme. Ma stanotte, sette marzo duemiladieci, all'Auditorium di Roma di sicuro avete provato qualcosa di nuovo. Terribilmente nuovo. La sensazione, cioè, di trovarsi fuori luogo, di non riuscire a reggere, di sentirsi ubriachi e stremati pur stando comodamente seduto sulle rosse poltrone della Sala Sinopoli.
Johnny Winter ha dato prova di essere un incallito electric-bluesman col cuore legato indissolubilmente alla propria terra. Non un brano rilassante, vicino magari alle influenze soul degli esordi. Non un momento per tirare il fiato: il blues del vecchio Johnny ha "straziato" le menti ed è arrivato dritto alle budella. In tutti i brani un ritmo unico, martellante; una voce (ormai più che logora) che cerca di tanto in tanto di imitare se stessa; una chitarra sporca, rozza, violenta e imprecisa. Ma tutto ciò non conta. Al vecchio Johnny e alla sua gente interessa solo il groove. Un brano dopo l'altro, ci si rende conto che non si sta soltanto assistendo ad un concerto ma ad una lezione sul floklore americano. Un brano dopo l'altro si ha la percezione di essere capitato nel posto giusto ma nel momento sbagliato. Perchè? Johnny Winter ha incarnato per anni la figura del bluesman e della rockstar, del traghettatore e del messia. Sulle sue spalle ha portato il fardello di tante "culture" e di tante "tradizioni sonore" che mescolava perfettamente fra le dita, creando, album dopo album, lavori che univano qualità ed eterogeneità. Oggi quel fardello lo ha volentieri lasciato a qualcun'altro.
Il vecchio Johnny, curvo e malandato ha tutta l'aria di qualcuno che se ne frega di te, della tua vita, del tuo vissuto e delle tue origini. E' come un vecchio che ama raccontare le leggende e le tradizioni locali a qualunque forestiero incontri appena fuori il proprio ranch, ripetendo la stessa trama mille volte, senza fermarsi mai, senza guardarti negli occhi per comprendere se hai capito qualcosa. A Johnny non interessa, nella sua musica stanotte abbiamo ascoltato il ritmo di quel Texas che nessuno di noi capirà mai.
" Il Texas è uno stato d'animo.
Il Texas è un'ossessione.
Ma soprattutto, il Texas è una nazione
in ogni senso della parola. "
John Steinbeck
Il Texas è un'ossessione.
Ma soprattutto, il Texas è una nazione
in ogni senso della parola. "
(Premio Nobel per la letteratura 1962)
di Francesco Giacalone